VIAGGIO INVOLONTARIO

Frammenti dal libro
a cura di Benedetto Gusano



Questo libro è stato stampato
per la quarta edizione di
Comunicare fa male
Fivizzano - luglio e agosto 1999



Luigi Cavalluccio

CARRARA DI NOTTE




Agguantò il giacchetto blu e scese le scale.
- Come sto?
- Bene. Ma dove vai?
- A Carrara.
(Carrara, come se la ricordava, stava tutta nel palmo di una mano, di fronte alla quinta delle montagne, dissepolta dal sole.)
Alla stazione comprò una bottiglia d'acqua e un pacchetto di sigarette.
Faceva caldo: cercava di non pensare, ma per colpa del cuore che aveva un poco in gola, avrebbe sussultato per un nonnulla. Allora stringeva i pugni e gli occhi, scrutando per l'arrivo del treno.
Cambiò tutti i treni come doveva e preferì fare l'ultimo tratto in piedi, di fronte al finestrino, perché il vento e il rumore la sostenessero mentre si avvicinava alla fine. Il treno in corsa infilzava stazioni come grani di un rosario. Si augurava di tornarsene sufficientemente intera per godersi la sera e tutte quelle palme e rododendri e carri ponte e pini e canneti per quel che erano e non come strilli e tonfi e parole ricacciate quali li sentiva ora.
Alla stazione di Avenza scese e, controllato l'orario del rientro, si avviò su per il vialone verso Carrara. Faceva un gran caldo, sotto i tigli o ippocastani che fossero: nessuno passeggiava per quel viale nella canicola del sole, e forse mai. Alle tre del pomeriggio, erano tutti sulla spiaggia, perché in Versilia bisognava prima abbrustolirsi, e rigorosamente da mezzogiorno alle tre, e poi darsi sornionamente da fare, fino alla sera, mentre la mattina camminava filata sulle proprie gambe, e la gente a rincorrerla, e la notte era tutta fatta per bruciare.
Si fece ognuno di quei benedetti chilometri a piedi. Non avrebbe proprio potuto affidarsi a un autobus traballante per farsi poi sputare sulla riva della città due ore prima del dovuto. Sul ponte cominciarono a dolerle i piedi, ma per il resto si sentiva bene, e le pareva di star guadagnando qualcosa in non pensieri e non parole, finché giunse alla curva in salita, e il fondale verde sgorato di bianco sotto il cielo teso sul cantiere del mondo le venne incontro con afa e puzzo di scappamento.
Siccome era in anticipo, e se lo era aspettato, per prima cosa si diresse allo studio del suo amico fotografo. Lo trovò seduto nell'ombra, con i gomiti alla scrivania e l'aria meditabonda. Fu salutata con sorpresa e quel minimo di cordialità perché non si sentisse a disagio. Parlarono di un'amica comune e delle loro faccende, mentre lei, toltasi le scarpe, camminava in su e giù a piedi nudi sul pavimento freddo e polveroso. Bevve un bicchiere d'acqua e fumò alcune sigarette. Si salutarono con affetto.
Si ritrovò sulla strada, da dove era venuta, nella morsa del caldo che trasudava dall'asfalto. S'incamminò verso la piazza Alberica, con quel cielo di lampadine che sempre vi aveva trovato e mai aveva visto accese.
Ma la piazza era deserta, a parte l'ombra sotto i portici o nel caffè del Leon d'oro. Allora se ne andò a cercar lume in duomo. Entrata, ci trovò almeno un po' di fresco. Il messale era aperto sulla storia di Giuditta, che si faceva bene accogliere dal nemico e preparava nel segreto del cuore la giustizia, senza tremare del suo proposito. Si sedette anche, ma non potendo non tendere ad altrove, decise di riprendere il cammino e tornarsene al Leon d'oro a bersi un buon bicchiere di vino.
Procedette leggendo le targhe sui portoni e le lapidi sulle facciate. Constatò così che: 1 - a Carrara c'era una grande proliferazione di dentisti e avvocati; 2 - mal s'accordava l'impressione che si poteva avere d'immediato dei carrarini coll'astio impettito che dettò le lapidi della retorica sovversiva, dove l'irriverenza ostentata, sbandierando principi di ribellione, apriva nel cuore di chi leggeva un gran vuoto alla commozione: mentre il sangue dei poveri della terra continuava e avrebbe continuato ad arrossare i tramonti di tutte le generazioni, vecchi farabutti ritratti nei loro più fieri cipigli lordavano le facciate altrimenti tanto gentili.
Siccome era lì - stava infatti facendo il giro della chiocciola per terminare scaramanticamente con un sorso di vino rincuoratorio - si fermò un poco davanti alla libreria anarchica e poi si decise a entrare. Come varcò la soglia, una zaffata di pagine morte le venne alla gola. A malapena si distingueva, nel poco cerchio di un lume, una figura occhialuta alla scrivania, di spalle a una finestra abbuiata.
La libreria in sé fu una delusione: nessun libro vero e troppi opuscoli di falsa propaganda, sproloqui vetero libertari, vomitaticci da comizio, astii spacciati per virtù civili, vecchi boli di esternazioni resistenziali e fotografie molto più esplicite del loro messaggio intenzionale.
Si rese ben conto che questa gente era del tutto ignorante su se stessa: la vecchia vite anarchica era stata talmente tòrta dal tempo e dall'arbitrio dell'interesse da non essere capace ormai, invece che di frutti, altro che di scarniti sberleffi di cartone. Vide le ossa tarlate di Kropoktin rose da qualche talpa avvedutamente cieca nell'angolo più nero dell'oscuro scantinato della bicocca più fatiscente di Carrara.
L'unica idea che continuava a essere debolmente spacciata all'ombra degli scaffali semi vuoti era quella dell'opportunità, del dovere anzi, di eliminare ogni elemento umano che si potesse considerare contrario al bene evidentemente non comune.
Senza sapere come, si ritrovò tra le grinfie di un catechizzatore da fiera, e con lo sguardo spiava per il desiderio l'asfalto lucido di sole, fuori, cercando in cuor suo il modo meno scortese per riguadagnare la via e la vita.
Mentre ascoltava con intimo scontento quelle parole, vischiose come ragnatele tutte tessute nello scarto tra l'ideale e il reale, le venne in mente il bisnonno senza Dio né padrone, pacifista radicale, che non potendo sopportare la vista di due piccioni che si leticavano legittimamente per il possesso di una picciona - e intanto quella se ne stava bellamente a guardare - per farli smettere cominciò a prenderli a bacchettate e tante gliene diede che alla fine uno stramazzò. Ma perché?
Forse il senso riposto nel fatto avrebbe potuto essere svelato soltanto da quel Dio che l'anarchico non aveva ancora conosciuto e che pure si sentiva in gran dovere di rigettare. Comunque, di fronte a quel piccione morto, povero resto di istinto e di calore, qualcosa si dovette muovere in quell'anima infiammata, perché annotò l'episodio tra le sue poche carte, accanto alle avventurose fughe per l'Europa, alla cronaca del confino, al racconto della sua carriera di falsario per la causa e a tutto quel che di ordinario e straordinario si accompagnava allora alla vita randagia di un anarchico militante.
Finalmente fuori! Intanto l'orologio aveva compiuto il giro: era ormai prossima l'ora di presentarsi all'appuntamento. Dunque era tempo di affrettarsi se voleva passare ancora dal Leon d'oro e, bevendo un cordiale, darsi l'agio di una sigaretta e riguardare alla prospettiva della piazza fradicia intinta di luce pomeridiana.
Domani sarebbe stato il primo di luglio. Si poteva sentire l'estate sbucare da ogni connessione delle pietre, vederla fare capolino dietro alle spalle annerite dei puttini sorridenti, o tirare fuori la sua linguaccia correndo da pilastro in pilastro, per poi scorgerla di sfuggita mentre raggiungeva il fondo e scompariva con svolazzi e risate a rotta di collo verso il torrente. Bene: era una vista che poteva perfino incoraggiare. Perché ora cominciava ad avere bisogno di essere rincuorata.
Dopo venti giorni di telefonate, di attese, di rinvii, che le avevano ben dato modo di consumare tutto, soprattutto quello che non c'era, era giunto il momento di affrontare la cosa per quel che era: fare le domande necessarie e sufficienti per garantirsi qualche mese di pace, senza lasciarsi vincere dalla fatica e dall'esasperazione, e ancor meno sopraffare da tutto quel grande fardello d'immaginazione che come una mandria di nuvoloni gravidi di tempesta minacciava da qualche tempo il cielo del suo cuore.
La reale realtà, alla quale avrebbe fatto bene a ridursi, e in fretta, se non voleva rovinarsi l'occasione, era che aveva un appuntamento con l'avvocato per fargli alcune domande che lei reputava di grande importanza per l'organizzazione della sua vita futura.
D'un tratto cominciò ad avvertire la stanchezza. Tirò un gran sospiro e si dovette quasi forzare a mettersi in cammino, lemme lemme, dando occhiate svogliate alle vetrine e rimestando, suo malgrado, col dito nel miasma delle sue budella aggrovigliate.
San Fisco Fosco! Non riusciva neanche a portare all'amen una preghiera che subito il cervello scalciava e s'impennava e di nuovo da capo dietro a chissà che. "San Dio, aiutami!" ("Il cuore poi, a Te lo raccomando!", e si passò una mano fra i capelli.)
Be', basta. Le sei e mezzo. Imboccò la galleria con passo deciso e, decifrato il nome sulla bottoniera, suonò. Da quel momento non fu più lì.
In effetti, le avessero chiesto dove era non avrebbe saputo cosa dire. Un momento rispondeva al citofono, il momento dopo spingeva la porta, poi, sdegnato l'ascensore, era su per le scale che arrancava verso il quinto piano, notando appena, mentre saliva, il panorama delle rampe e porte e scalcinamenti delle mura. Non c'era molta luce, ma faceva caldo, quasi più che fuori. Giunse alla porta: era aperta. Ma la sua mente era tutta chiusa e fuggiva, fuggiva via come una lepre marzolina pazza. Oramai era fatta.
Era lì: non sapeva più davvero perché, sentiva soltanto che se pure era scampabile, quel maremoto l'avrebbe avuta in sua balia finché fosse durato. Non poteva fare altro che mantenere il posto e cercare di reagire minimamente, almeno per salvare la cortesia. Sapeva per certo che a quel punto si sarebbe dimostrata evidente la madornale futilità della sua venuta fin lì, e questo non perché a Firenze non potesse essere apparsa effettivamente necessaria, ma perché a Carrara era del tutto gratuita.
C'era ancora e soprattutto la città fuori, con tutto il corteggio dei contrasti irrisolti, e dentro di lei, un cuore perfettamente insano, follemente intimidito, a disagio e perso: aveva commesso l'imperdonabile errore di innamorarsi del proprio avvocato. Vattelappesca perché.
Varcò la soglia, e avrebbe voluto essere altrove. Ma oramai c'era: almeno, la vi si poteva vedere mentre entrava con l'aria stranita, che si faceva scortare nel salotto (non senza prima aver dovuto dominare l'impulso di strimpellare una scala fuggente sulla tastiera coperta del piano che faceva il carabiniere nel corridoio), e che si sedeva goffamente su una poltrona dallo schienale rigido, che tirava fuori un libro per leggerne due righe, e subito lo richiudeva, si guardava intorno notando appena la rifinitura a melograni del mobilio vecchiotto e il quadro delle cave, giallo e bianco e azzurro, come c'era da aspettarsi. Forse c'era anche un quadro di tempesta, o l'aveva visto sulla copertina del libro e le pareva che avrebbe figurato bene appeso lì. C'era una finestra grande, un tavolo e poi un signore, anche lui a disagio, che si scrutava sconsolatamente le mani serrate tra le ginocchia.
Sarebbe stato tanto meglio che non avesse dovuto vedere tutto questo: non il piano, non le melograne, non le cave e soprattutto non in compagnia. Avrebbe avuto bisogno di uno scrupolo di discrezione e forse, con una decina di minuti a disposizione avrebbe anche potuto guadagnare quel tanto di serenità da non rendere inutile l'essere giunta fino a lì. Ma non aveva avuto ancora il tempo di fare un secondo giro della giostra, che l'avvocato entrò a prelevarla, per abbandonarla poi ancora una volta sulla bassa poltroncina di fronte alla scrivania, nella sua stanza - e non senza prima averle agitato sotto gli occhi la cartolina che lei gli aveva spedito a Pasqua dicendo, col tono di chi esibisce una prova:
- Questa è tua.
Sospiro. La conosceva sì quella cartolina, la conosceva a memoria: ricordava tutto del volto che si torceva sorridendo, e del ‘buon vento', e del ‘verde mondo temporale', e della riverenza e dell'‘a Dio v'achomando'. Perché l'aveva letta e riletta e recitata millanta volte prima di decidersi a spedirla, anzi prima di spedirla senza decidersi, perché a riguardo continuava a essere indecisa anche ora, ora più che mai. Ma già lui era uscito chiudendosi la porta alle spalle. Così non le rimase che appellarsi agli oggetti.
Dietro una fortezza di fascicoli e volumi, vide un foglio di carta coperto di parole - e, se la memoria non l'ingannava, sapeva bene di cosa si trattava: erano gli appunti per una nuova causa, un pezzo della carne storica di un qualcuno che fino a pochi istanti prima stava seduto sudando parole proprio dove ora era lei. Le parve anzi di sentire il calore di quel corpo sconosciuto attraverso la stoffa della gonna sgualcita. Comunque, c'era anche un computer con una scrivente uguale alla sua, e questo era già qualcosa di familiare ma non penoso, come la coperta bianca sulla tavola, perché anche lei non usava lavorare sul legno nudo. La scrivania dava di spalle alla finestra con la serranda abbassata: faceva davvero troppo caldo e l'aria era ferma, sul chi vive.
Alla sua sinistra, dormiva un armadio basso coi vetri smerigliati, con sopra delle filze e una coppa ingrigita. Alla destra, vegliava un divanetto sul quale era appoggiata una ventiquattr'ore dalla bocca spalancata, con alcuni fascicoli e, in cima, un opuscolo di un Jolly hotel. Vicino alla porta, alle sue spalle, sulla mensola del termosifone, qualche libro e una bottiglia di abbronzante. Accanto alla finestra, alla sinistra di chi non c'era, due quadretti in perfetto stile versiliano mostravano le mossette accattivanti di un giovane accattone, che di sopra strizzava l'occhio e sotto fumava una sigaretta. Forse perché c'era poca luce, ma le sembrò di riconoscervisi e questo la fece sentire ancora più a disagio, come se avesse aperto la porta sbagliata. Sulla parete alla destra dei clienti, il diploma una bella madonnina lavorata a uncinetto e le iniziali dell'avvocato a punto in croce [mamma? nonna? fidanzata?]. Forse c'era anche un quadro blu a macchie rosse, ma su quello non si soffermò.
Vide più col cuore che con gli occhi tutto quell'apparato da bravo giovane. E ricacciando nella borsa il libro scivolato a terra come una lacrima in gola, si sentì tanto sola.
Intanto e finalmente l'avvocato fece il suo ingresso, accese la luce e si sedette dietro la scrivania.
- Cosa vuoi che ti legga? - Si sentì dire, e lo guardò in viso per la prima volta da quando era salita. Poco poteva distinguere, a parte l'abbronzatura che già di per sé gli confondeva i tratti, e il mento, perché quello lo notò, accorgendosi che lo aveva forte, con una fossetta. Aveva una camicia azzurra con le maniche appena rimboccate e non portava cravatta ("Almeno questo mi è stato risparmiato" pensò).
Mentre lui allungava la mano a cercare il fascicolo giusto, le venne fatto di posare lo sguardo sul quadrante del suo orologio, ma non si accorse dell'ora: vide soltanto quel cerchio bianco e le lancette che si sovrapponevano.
L'ambiente era caldo e fermo, un caldo solido e diffuso che faceva venire una gran voglia di tirare su la serranda e spenzolarsi dalla finestra per una boccata d'aria e di luce vera. Si dimenò un poco sulla poltrona, e facendo mentalmente il punto, rispose, con un sorriso stentato:
- Tutto quello che non devo leggere.
E così lui cominciò a dar florilegio della perizia, e nel mentre che leggeva, impugnata proprio la cartolina dello ‘scompigliarti le scartoffie' e ‘verde mondo temporale', si faceva vento, con tutta la concentrata impazienza di uno studente che rincorre la fine del capitolo e col pensiero è già al momento in cui, se Dio vuole, chiuderà il libro e potrà dedicarsi a quello che veramente gli sta a cuore. Lei lo guardava attonita, senza sapersene capacitare. Impotente di sé, assisteva a quella dissacrante affermazione di noncuranza con la stessa accorata indignazione di chi è costretto a presiedere a un'esecuzione. Cosa gli era mai preso di rigettarle a quel modo sul grembo tutta la sua più amichevole buona affezione?
Se l'intenzione fosse stata quella di confonderla, altro gesto più scombinante non avrebbe potuto essere scelto.
Ora bisogna dire che, mentre tutto questo accadeva sotto i suoi occhi con la stessa perfetta casualità di una sequenza nouvelle vague, le parve subito evidente come dovevano essere andate le cose: l'avvocato, aperto il suo fascicolo per rinfrescarsi la memoria in previsione dell'appuntamento, vi aveva trovato, sepolta tra le altre carte, la cartolina, indebita testimonianza di un qualcosa che là dentro doveva fare l'effetto di un cavolo cresciuto in un solco di zucchine. Così, l'aveva semplicemente tirata fuori, e (chissà?) magari proprio per la gratuità che dimostrava, come un oggetto curioso, senza nessun'altra ragione al mondo se non forse quella di stabilire il vantaggio di chi può dichiarare con tutta tranquillità di avere ricevuto qualcosa che non ha mai desiderato e tanto meno pensato di ricambiare.
Certo è che, nell'economia rarefatta dei loro incontri, questo gesto del farsi vento con quel miserello pezzo di carta, assumeva, malgrado ogni buon senso, lo statuto di eco all'aver lei avuto la presupponenza di rivolgersi a lui tanto amichevolmente: senza nessuna domanda o commento, neppure un impersonale ringraziamento, quell'esibirle il corpo del reato fu per lei quasi un oltraggio, o forse peggio, perché ne fu percossa come da una sfida lanciata in modo tale che non vi potesse essere né luogo né tempo per alcuna soluzione, e per questo resa ancora più intollerabile.
Appiattita al suo velleitario tentativo di comunicazione, si sentiva quasi costretta a doversene esplicitamente assumere la responsabilità, come se già non fosse implicita nell'evidenza tangibile e incontrovertibile di quello stravagante scritto augurale.
Intanto l'avvocato leggeva, commentava, formulava casi, muoveva obiezioni alle quali già rispondeva, e lei gli stava di fronte, annaspando, catturata dal ritmico svolazzare di quel cartoncino, senza potere più seguire il filo di ciò che gli veniva detto. La situazione le era sfuggita di mano. E l'ostensività inquisitoria del gesto le smoriva le domande in bocca.
"Signore Iddio, fagli capire cosa sta facendo: fagli capire che non può farmi questo. Dio abbi pietà di me, perché la smetta e la metta via e la seppellisca sotto un cumulo di pratiche inevase. Pietà di me Signore che mugolo per il vento che non c'è e che ora mi alzo e me ne vado sbattendo l'uscio e correndo giù per le scale fino alla soglia maledetta del marciapiede sconnesso. Abbi pietà di me che ho la bocca murata e le ossa di gelatina. Fa qualcosa per me, e non mi abbandonare nell'urto".
Fu più veloce il tempo: erano già in piedi (qualcuno lo richiamava ad altri doveri) e si salutavano, e quando la porta le si richiuse alle spalle si accorse di sentirsi risputata alla vita con l'impressione che non fosse più la sua. E tra tutto era felice, perché non poteva fare a meno di dirsi che era stato davvero bravo: non le aveva lasciato nessuna possibilità. Se ne tornò da dove era venuta con tutto il fardelletto delle domande irrisolte ben ricomposto nel ripostiglio ansioso del suo cuore.
E mentre alla stazione il treno in transito cancellava d'un solo tratto tutte le vuote fornicazioni della sua fantasia, stordendola di rumore come uno schiaffo, rise di cuore e si portò a Firenze senza sapersi decidere di dover protestare.



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