PAROLE: Violenza e Comunicare


Comunicare fa male
Decidere di usare un intero sintagma piuttosto che un singolo lemma; decidere di evitare la copula classica della definizione occidentale, che si appoggia sulla presunta sicurezza del verbo essere; ecco due modi, umili, di scampare almeno in parte alla convenzione asettica del dizionario analitico, che candidamente (?) è sicuro di esporre verità linguistiche e fattuali. Comunicare fa male significa quindi, innanzitutto, prendere posizione, dichiarare che il problema della comunicazione non è ascrivibile alle dissezioni anatomiche e anestetiche della semiologia - capace soltanto di ridurlo a un tema già svolto, o addirittura a una serie di sottoinsiemi: la trasmissione di messaggi, per lo più unidirezionali; l'informatica che codifica e decodifica segni neutri, che filtra e addomestica segnali dentro una rete di controllo; l'informazione che dà spettacolo di se stessa e del "fasto" osceno della merce.

Comunicare fa male significa riferirsi sempre e comunque a una pragmatica. Significa insistere sugli effetti dell'atto e sulla presenza di corpi coinvolti nell'atto - travolti, plasmati, modificati e modificanti - piuttosto che rimandare all'astrazione di macchine performative e virtuali. Significa una decisa e consapevole parzialità, che preferisce, per urgenza etica e storica, soffermarsi sul comunicare inteso come lavoro del limite, come assalto ai limiti, mettendo in secondo piano, ma senza trascurarla, la comunicazione intesa come medium e ricordando che sullo sfondo della vulgata imperante esiste una deformata communication, che nient'altro è se non marketing aziendale interessato a produrre esclusivamente parole d'ordine e meccaniche reazioni a stimoli meccanici.

La dimensione di medium caratterizza la comunicazione come luogo del consenso, tradizione di saperi e passaggio di esperienza, memoria del già accaduto, proiezione del sempre identico. In essa si raccolgono le diverse sfumature della conservazione: quelle ricche e accoglienti della custodia collettiva e della condivisione critica del passato e quelle chiuse e refrattarie, inscritte nell'economia ristretta dell'utile immediato e nel conformismo colposo di pensieri parole opere omissioni.

Quando comunicare torna ad essere un assalto gioioso e coraggioso ai limiti, quando comunicare fa breccia ai confini - di pelle lingua intelligenza ed emozioni - ciò che separa o crede separare gli esseri vien meno di fronte all'incandescenza espressiva, allo stupore (e alla paura) dell'Altro, a un'economia più generale, smodata e incontrollabile, quella della dissipazione gloriosa dell'universo, della festa smisurata generosa e involontaria di cui ci dà esempio l'astronomia tutta - esplosioni luce consumo dissipazione velocità incontri scontri vuoto buio accecamento - fuori dagli schemi di stitichezza energetica dell'avarizia o di dinamismo autoreferenziale dell'accumulo. E questo venir meno non è mai indolore: disturba, inquieta, rompe schemi percettivi rigidi e preordinati, frantuma identità orgogliose del proprio granitico orizzonte di valori. Questo venir meno provoca reazioni di difesa, attacco violento, panico - panico di perdere privilegi storici e biografici. Questo venir meno è un fare spazio, non nella direzione pelosamente altruistica di un rispetto "dovuto" perché ideologico o di un senso di colpa intellettuale ed esangue (tipico di molta "sensibilità" occidentale, comoda garantita e seduta), ma nella direzione di una metamorfosi e di un potenziamento continui delle capacità percettive, degli strumenti per leggere e modificare il contesto da cui parliamo, da cui siamo incessantemente parlati.

Il limite che viene così sperimentato e toccato è portale di scoperta, ferita, pertugio, pericolo - e soprattutto luogo di passaggio, scambio inedito, invito al viaggio senza ritorno, senza assicurazioni turistiche: sai o ti illudi di sapere da dove parti, non sai dove arrivi, non sai se, non sai come. Non conosci le strade, non conosci la geografia sotto i piedi, non conosci la cosmografia sopra la testa, perché non ti riconosci più, perché perdi qualcosa camminando, e il perdere diventa acquisizione di velocità e apertura. Esci finalmente dallo specchio ipnotico delle certezze acquisite e coltivate, di generazione in generazione, di famiglia in famiglia, di privilegio in privilegio, di latitudine e longitudine. Esci, parti e ritorni, forse. Ritorni su alcuni dei tuoi passi. Più ricco di molteplice, più stanco di visioni e ascolti, più silenzioso. Il male suscitato da questo esercizio teneramente estremo del comunicare è una risorsa da non sprecare nell'oblio della ripetizione coatta delle abitudini che ci hanno strutturato, cementato, rassicurato e chiuso una volta per tutte.

Comunicare: un viaggio involontario, un percorso nel deserto senza mappe e senza meta ultima, un'ascesi del desiderio - etimologicamente intesa come esercizio costante dell'attrito e dell'incontro, come occasione di perdere il controllo. E quando decideremo di perdere il controllo? Quando non ne avremo più alcuno? Parafrasando Majakovskij: io sono in debito con tutto ciò su cui non ho avuto il tempo di scrivere, sono in debito con tutti coloro che non mi sono sforzato di capire, di incontrare. Quest'impressione di esser sempre trattenuti, guardinghi, con la difesa alta, i guantoni che coprono gli occhi, le orecchie sommerse dalla ridondanza volgare del rumore di fondo che esorta a compiere gli stessi gesti, in una sorta di ottuso rituale della demenza compiaciuta...

Comunicare, secondo una sua possibile radice linguistica, indicava la condivisione dei doni. E quindi: fare festa. Avere un rapporto di ebbrezza con l'universo, e non soltanto di contemplazione ottica, passiva.

Comunicare, sottratto all'ordine dei discorsi seri e dello scambio proficuo, fa ridere: onde bianche che trascorrono sui volti della madre e del bambino, esplosioni di luce che attraversano gli amici, gli amanti e gli sconosciuti - che si incontrano di notte e rompono il buio con cenno di labbra complici.

Federico Nobili

torna in cima

La parola violenza
Ci sono parole che vengono utilizzate spesso, confidando nell'immediata comprensione di chi le ascolta. Ce ne sono altre che invece devono essere ridefinite ogni volta, perché l'abitudine che abbiamo fatto al loro suono le rende opache. Se l'aggettivo violento è comunemente accettato in ogni discorso, l'uso che si fa della parola violenza richiede invece una piccola riflessione. Il dizionario ci dice che è un sostantivo utilizzato per indicare la natura, o la qualità, di chi o di ciò che è violento, ossia di chi abusa della propria forza fisica. Ognuno di noi ha quindi una forza il cui uso "deve essere" regolato. E qui le lingue rotolano sulla "erre" delle regole, perché se la violenza è un'azione contraria all'ordine, o meglio, alla disposizione naturale, le regole dovranno ristabilire quell'armonia incrinata dalla violenza. Emerge in questo passaggio uno degli approcci più comuni a quello che è considerato "il problema della violenza", ossia il giudizio morale, che sostiene a sua volta una regolamentazione giuridica delle azioni. Il significato della parola comprende quindi una precisa disposizione nei confronti della violenza, tale da farne un concetto. Eppure la violenza non è un concetto, è semmai un evento che riguarda il corpo, le parole, i pensieri e gli affetti. L'ambizione di darne una definizione precisa è ancora una violenza, per forzare il linguaggio verso una maggiore precisione. Il paradosso è che ogni definizione rimanda ad una teoria. Molte di queste teorie sono vincolate alla prevenzione della violenza, e sono poche quelle che cercano di analizzarne il meccanismo, dimenticando che ci si situa sempre in mezzo alla violenza, e mai alle sue origini. Il nostro sguardo può cogliere quel che avviene durante, il nostro corpo può fare memoria delle conseguenze della violenza, ma le origini affondano nella violenza stessa e ogni spiegazione che provi a oltrepassare l'autoreferenzialità della violenza scivola inevitabilmente verso altri territori. È una questione di limiti. Da una parte l'evento della violenza è irriducibile a qualsiasi rappresentazione, dall'altra è necessario collocarsi in questa sospensione per poterci avvicinare all'impensato della violenza. La domanda "che cos'è la violenza?" genera un grande imbarazzo, perché mancano le parole. Il linguaggio della rappresentazione non è in grado di spiegare quali limiti siano stati scardinati dal passaggio della violenza. E non è sufficiente neanche spiegare cosa abbia sentito il nostro corpo, perché ogni sensazione, ogni azione è già plasmata da quella disposizione morale che sposta la domanda verso il "chi": chi ha esercitato violenza? chi ha subito violenza? Lo spostamento dal "che cos'è" al "chi" ci fa perdere di vista quel che accade d'importante, quell'essere immersi nella violenza al punto da utilizzarla come mezzo, quel non poter fare a meno di farci violenza per pensare, per agire, per vivere. La violenza si dice solo in questo limite, fra l'eccesso di parola e l'eccesso di silenzio di cui sono fatte le nostre giornate. E anche questa è una violenza, al nostro linguaggio, al nostro corpo, a tutte quelle parole che moltiplicano la distanza dall'evento, perché alimentano abitudini e torpori. Ma ci sono dei lemmi che impongono una svolta ai discorsi, e ai pensieri. Se la violenza è una parola che si ripete ormai con una facilità viziata dall'orrore corale che è in grado di sollevare, termini come il maltrattamento, abuso, controllo, hanno la capacità di scuotere l'automatismo con cui facciamo nostro il mondo. È sempre violenza, ma questa volta si insinua anche in quella linea civile, plasmata da una ragione che vorrebbe proteggerci. Maltrattare, "trattare male", non prestare attenzione, negare ogni cura, distrarsi. È solo nello squarcio aperto dal maltrattamento che possiamo pensare la violenza come qualcosa che non solo ci riguarda, ma che accade anche in quelle zone che sembravano sicure, familiari. Ed è necessaria ancora una violenza, per toglierci l'abitudine di questa parola.

Manuela Galbiati



torna in cima   torna in cima