Alfabeto ossessivo della memoria e dell'oblio

Chiese qualcuno ad Auschwitz
Bisognoso davvero
Perché siete arrivati tardi
Se il vostro cuore è sincero?
Bimbo, mio caro bimbo,
che domanda da fare
avevamo la pace da salvaguardare.
        Giovanni Lindo Ferretti

Acetilcolina. Acetil-colina. Fissate nella vostra memoria questa parola: acetilcolina. Ripetetela dentro di voi: Acetilcolina...
L'Acetilcolina è un neurotrasmettitore. Un neurotrasmettitore è una sostanza chimica prodotta dal cervello. E che cos'è il nostro cervello? Un ammasso grigiobianco di miliardi di cellule chiamate neuroni. I neuroni si connettono l'un l'altro con dei ponti, le sinapsi. Le sinapsi secernono neurotrasmettitori, grazie ai quali vengono scambiate le informazioni che governano il nostro corpo, i nostri pensieri, le nostre emozioni, il nostro sonno e la nostra veglia, tutto quello che facciamo e tutto quello che percepiamo.
Ma non vi parlerò dell'architettura mirabile e complessa che viene custodita dentro la scatola cranica. Vi ricorderò soltanto di un viaggio, un viaggio smisurato e involontario, un viaggio che affonda le sue radici nel buio prima della parola, nel buio che precede la nascita stessa del pianeta terra. Un secolo: vi rendete conto di quanto tempo sia? Un secolo significa cento anni, che sono poco più di 36.500 giorni, 876.000 ore, 52 milioni 560.000 minuti... E se avete la fortuna o la sventura di viverli tutti, questo vuol dire oltre 3 miliardi e 679 milioni di battiti del muscolo cardiaco che pompa il sangue nelle arterie per mantenere viva la vostra vita. Ebbene, tutto questo cumulo di tempo energia e fatica che è un secolo, come quello appena trascorso, il ventesimo secolo, il secolo più sanguinoso nella storia dell'uomo, non rappresenta assolutamente nulla, nient'altro che un rapido soffio, rispetto ai milioni di secoli, ai miliardi di secoli che sono occorsi perché la materia che brucia ed esplode nelle stelle si tramutasse nella materia che forma i pianeti, e perché la polvere inorganica dei pianeti si organizzasse per caso o necessità in polvere vivente, e perché questi primi minuscoli invisibili abbozzi di vita diventassero piante poi insetti poi esseri invertebrati e via e via, di millennio in millennio, di nascita in morte, di morte in nascita, finché si son cominciate a tracciare le strade lente e tortuose che dalle scimmie hanno condotto agli uomini e alle donne.
Vi rendete conto di quanti sforzi dolori incidenti curiosità invenzioni piaceri scoperte paure violenze ci sia stato bisogno perché si passasse dal piccolo e già stupefacente cervello di una scimmia a quello mostruosamente sviluppato, a volte già troppo mostruosamente sviluppato, di uomini e donne primitivi? E ci pensate a quante migliaia e migliaia di anni ci sono voluti ancora per arrivare a questi capolavori che sono il mio cervello e i vostri? Con tutto il rispetto, si intende...
Ma ci siamo forse già dimenticati dell'Acetilcolina? La vostra memoria a breve termine, la vostra memoria di lavoro - come la definiscono i neuropsicologi - funziona così male? Allora è probabile che ci siano problemi con l'Acetilcolina, appunto. Che è il neurotrasmettitore deputato a regolare le capacità mnemoniche. Sia quelle a breve che a lungo termine. Quelle che formano il nostro bagaglio di pensieri significati valori azioni ricordi, la nostra capacità di apprendere e parlare, di vedere e sentire, di amare e odiare, di riconoscere capire e sbagliare. In poche parole, tutti quei ricordi consapevoli e inconsapevoli che plasmano ogni identità. Annichilite la memoria e non riuscirete più neppure a riconoscere la vostra immagine nello specchio.
Quando qualcuno prova a descrivere che cos'è la memoria, come funziona, spesso usa delle immagini: un libro, una biblioteca, un archivio, un museo, stanze e oggetti disposti nell'interno di una casa, un computer con le sue informazioni elettriche conservate nei circuiti al silicio. Ma queste analogie contribuiscono a renderci imbecilli, molto più di quanto ci aiutino a capire. La memoria non è una scatola, un recipiente morto e polveroso, una serie neutra di zero e uno disposti in un microchip informatico. La memoria non è un contenitore, è una forma, un modo di essere, un modo di sentire, un modo di agire. La memoria non si riduce a un catalogo di eventi riesumabili a piacere. La memoria è frutto di selezione e di lotta, opera scelte e censure, decide che cosa sia utile e necessario e che cosa non lo sia più, inciampa spesso nell'oblio ma non sempre come un suo contrario, perché la memoria si nutre anche di tutto ciò che dimentica, di tutto ciò che scompare o si tralascia, per poter fare posto ad altro, per provare a cambiare rotta. E poi la memoria non vive sepolta nell'interiorità chiusa, gelosa, impermeabile del singolo individuo: si alimenta del confronto, del dialogo, della differenza, della trasformazione continua di sé. Anche da soli siamo sempre una folla.
Ma soprattutto, per tornare alla nostra stanza, vorrei sottolineare questo aspetto, su cui forse non avete vi siete mai soffermati: una macchina, un libro, un archivio non possono provare vergogna. Ficcatevi bene in testa e nella carne questa parola: vergogna. Perché da decenni abbiamo cercato di estirparla come se fosse il diavolo, come se fosse il male, come se fosse un agente repressivo e basta. Oppure ne abbiamo abusato con leggerezza, con ipocrisia. Ma la nostra memoria, personale e collettiva, sarebbe un lusso e un orrore, se incapace di vergogna. Non è che un lusso e un orrore, ogni volta che si dimostra incapace di vergogna. Perché rifiutiamo la vergogna? Forse banalmente perché siamo incapaci di maturare, perché non vogliamo affrontare le nostre le responsabilità, il dolore delle responsabilità. Una memoria senza vergogna ci trasforma in vampiri, "esseri che non possono neppure riconoscersi perché non possono vedersi allo specchio". Esseri che succhiano il sangue del passato, ma non cambiano mai. Quanto più un potere è forte, tanto maggiore la sua volontà di cancellare la memoria e la vergogna, di inaridire gli strumenti del sapere e dell'immaginazione. In questo caso il potere è un vampiro che lascia dietro di sé cadaveri e fa di tutto per occultarli. Pensate a tutti quegli eventi di cui non abbiamo più traccia, a tutte quelle comunità che, prive di risorse o semplicemente annichilite, non sono in grado di custodire la benché minima memoria della propria esistenza, del sopruso subito, della passata felicità.

I termini di memoria e vergogna mi suggeriscono un'altra analogia elaborata dalla nostra cultura intorno alla facoltà di ricordare. Mi riferisco al fatto che durante il Rinascimento si definiva "teatro della memoria" una serie di sofisticate tecniche per conservare dentro di noi dati, immagini e parole. Un potenziamento strepitoso delle facoltà intellettuali per dare voce alla complessità dell'universo. Ma in questo momento è la parola teatro che mi interessa. Il nesso di vergogna e memoria che suscita in me. Chi di voi ricorda il teatro "Na Dubrovka" a Mosca? Fine ottobre 2002. Qualcuno, su un giornale italiano, pochi giorni dopo ha scritto: «È veramente un terrorista (...) chi attrae l'attenzione del mondo sul genocidio che è in corso in Cecenia? Come avremmo chiamato l'ebreo che per denunciare l'esistenza dei Lager avesse preso in ostaggio gli spettatori di un teatro nella Germania nazista?»
Se nulla sembra cambiare, sarà davvero così utile ricordare, ostinarsi a ricordare, accumulare ricordi e testimonianze? La memoria troppo spesso non è che buona coscienza a buon mercato, formule morte di cui ci riempiamo la bocca: mai più, never again, nunca mas... Slogan che paiono dire proprio il contrario di quello che intendono, e sembrano ripetere, involontariamente beffardi: sta accadendo ancora, di nuovo e per sempre, ancora, di nuovo e per sempre.
Sarò un po' contorto, ma adesso mi viene in mente anche un pensiero contrario: perché non riflettiamo mai abbastanza sul semplice fatto che troppo spesso "la memoria della violenza passata nutre la violenza presente"? Che questa memoria maniacale innesca e sorregge il meccanismo della vendetta, la ferocia senza fine della faida? E allora è davvero sempre utile ricordare, è proprio così necessario avere una persistente memoria del male? Non ci sarà forse bisogno anche di un consapevole oblio, di una pausa di silenzio, di un taglio momentaneo con le radici che fanno soffrire, che fanno reagire, che giustificano a ritroso nel tempo ogni possibile violenza? Devitalizzare un dente comporta perdere qualcosa di vivo, ma anche guadagnare sollievo. Ricordate il macabro teatrino della memoria nell'ex Jugoslavia? Ognuno aveva un torto subito, recente o remoto, terribilmente vero o terribilmente immaginario, da riscattare, e con cui legittimare altri torti, altri stupri, altre violenze, altri macelli.
E se lo stato di Israele si è formato anche sull'onda di orrore e indignazione per i sei milioni di ebrei sterminati dai Nazisti con la complicità o il silenzio di mezza Europa, se è nato per dare rifugio e speranza agli scampati, ma anche per essere memoria vivente di un simile scempio, di una persecuzione senza tregua, come hanno fatto gli eredi delle vittime a diventare anch'essi carnefici? Come hanno fatto a cadere negli stessi errori? Come sono stati possibili il sopruso collettivo e la mistificazione collettiva? Certo, le cose nella realtà sono molto più complesse. Le cose non sono mai così semplici. Non c'è mai un vero inizio, un puro inizio. Tutto si forma sempre in mezzo al movimento sporco della storia. Nulla si può ridurre a una rassicurante equazione di primo grado. Proprio in questo consiste il senso profondo e preciso della parola tragedia. Tragica è una situazione in cui non si può decidere con nettezza inequivocabile dove sta il bene e dove sta il male, qual è la decisione giusta e qual è la decisone sbagliata. Ma perché non posso farmi una domanda così apertamente ingenua? Per quale vigliaccheria intellettuale dovrei impedirmi una simile domanda? Per timore di essere considerato antisemita? Per timore di essere considerato terrorista? Queste volgarità le lascio a chi le alberga. Qualcuno di voi, piuttosto, ricorda che il disastro di questi anni, di questi mesi, di questi giorni, non è riducibile all'oscena esplosione del terrorismo fanatico e suicida? Qualcuno di voi ricorda il 1948? E il 1982? Vi dicono nulla i nomi di Sabra e Shatila?
Proviamo a riflettere insieme. «I conquistatori facevano parte di coloro che avevano subito il più grande genocidio della storia. E di questo genocidio i sionisti avevano fatto un male assoluto. Ma trasformare il più grande genocidio della storia in male assoluto è una visione religiosa e mistica, non è una visione storica. Non ferma il male; lo propaga, invece, lo fa ricadere su altri innocenti, esige una riparazione che fa subire a questi altri una parte di ciò che gli ebrei hanno subito (l'espulsione, la ghettizzazione, la scomparsa come popolo). Con mezzi più "freddi" del genocidio si vuole ottenere lo stesso risultato.»
Pensate a tutto quello che vi dico, pensateci con sguardo fisso e silenzioso. Non siate precipitosi nel giudicare le mie parole. Vi prego, non cadete nella trappola degli opposti schieramenti: o con me o contro di me. Pensateci da soli, prima di addormentarvi. Con lo sguardo rabbioso e severo. Con lo sguardo mite e raccolto. Respirando a fondo prima di giudicare.
«Quella sarà civiltà perfetta che tutto tradurrà in storia, e ci consentirà di ritrovarci ogni mattina in condizione di novità, liberi del passato.»

Il mio alfabeto è composto tutto di parole che iniziano con la A. Acetilcolina è stata la prima parola. Auschwitz è la seconda. Dopo la prima parola c'è la seconda. Dopo l'inizio non c'è la fine, ma tutto quello che sta in mezzo. Noi stiamo in mezzo. Auschwitz sta in mezzo. E io non ve lo racconterò, perché non sono in grado di farlo, perché non posso permettermi di farlo. Altri vi diranno. Leggete i loro libri, finché siete ancora in tempo. Ascoltate le loro testimonianze, finché sono ancora vivi. Il tempo della confusione e dell'infamia è già arrivato. È qui, nelle nostre case, nel nostro paese, dentro le nostre teste smarrite. Fate attenzione, fate davvero attenzione. Ascoltate la parola "capire", per esempio. Ascoltatela. La capite questa parola? Capire... Quando una cosa ti entra dentro e non puoi più evitare di farle spazio, è lei stessa che si prende con forza il suo spazio, e non ti abbandona più, anche se la dimentichi, non ti abbandona più. Scorre nel tuo sangue, dà forma ai tuoi movimenti, dà forza o balbuzie alla tua voce, dà senso e pienezza ai tuoi silenzi, alle tue scelte, ai tuoi decisi rifiuti. Questo significa capire, forse. Perché il problema non è tanto ricordare, ma capire e cambiare. Dovremmo allestire mille stanze della comprensione, mille stanze del cambiamento, per ogni stanza della memoria. Lo ripeto: l'importante non è ricordare, ma capire e cambiare. Chi è che si trasforma da cima a fondo, in maniera quasi impercettibile eppure inequivocabile, per le cose che ha nella memoria? Ditemelo! Chi è che cambia davvero grazie alle conoscenze che gli arrivano da fuori, mediate dalla parola, confezionate nelle occasioni pubbliche delle commemorazioni istituzionali, trasmesse sui banchi di scuola, nelle aule universitarie, dallo schermo televisivo?

Da qui, da questa stanza, dovreste uscire furiosi e al contempo con la voglia di comprendere, non riconciliati col mondo né con voi stessi. E soprattutto diffidenti, diffidenti nei confronti della vostra stessa commozione per tutti quei corpi umiliati e massacrati. La commozione è un rischio, un'insidia, una comoda poltrona. Vi regala la facile favola della vostra sensibilità, della vostra anima bella, della vostra bontà, della vostra indignazione. Se rimanete soltanto nell'emozione siete fottuti. Siamo fottuti. La compassione consola e non cambia nulla, vi lascia uguali a prima, con tutti i vostri buoni sentimenti, con tutto il vostro buon senso. E non avrete capito che poco o nulla. I buoni sentimenti inutili sono il prodotto automatico delle commemorazioni, dei sacrari, dei monumenti.
Lo sapete che in tedesco - la lingua dei carnefici - monumento si dice Denkmal? Alla lettera: segno del pensiero, porta del pensiero... E perché invece ogni monumento non è che il segno della nostra incapacità di pensare, la porta spalancata sulla nostra forsennata abilità di dimenticare, sulla nostra voluttà di dimenticare, ricoprendo di retorica artificiosa quello che è accaduto, quello che continuamente ci accade attorno e dentro?
Ci identifichiamo spesso con la vittima, sinceri magari, ma senza correre alcun pericolo. Oppure, sempre senza osare nulla, ci identifichiamo con l'eroe, con l'eterno vendicatore frustrato che alberga dentro di noi. Perché non proviamo invece a indossare i vestiti sgradevoli degli aguzzini, degli assassini, dei torturatori, dei dittatori? Perché non proviamo a sentire quanto siano umani, disgustosamente umani? Non certo per giustificarli, per fornire attenuanti sociali e psicologiche oppure perdono spirituale. Il perdono è un lusso disdicevole, quando lo si concede in nome di altri, quando non si è coinvolti direttamente nel dolore. Ma non dobbiamo illuderci che l'altro sia totalmente altro, che l'altro sia il mostro. Non ci troviamo mai al sicuro, ricordatevelo. Non siamo mai al sicuro da noi stessi. Non possiamo sapere con assoluta certezza di che cosa saremmo capaci in determinate circostanze. Provare a mettersi al posto dei carnefici, questo sarebbe forse un primo passo di conoscenza, una vertigine di umiltà, un segnale di cambiamento in atto.
«La vergogna d'essere un uomo non la proviamo soltanto nelle situazioni estreme descritte da Primo Levi, ma in condizioni insignificanti, di fronte alla bassezza e alla volgarità d'esistenza che domina le democrazie, di fronte alla propagazione di questi modi d'esistenza e di pensiero-per-il-mercato, di fronte ai valori, agli ideali e alle opinioni della nostra epoca. L'ignominia delle possibilità di vita che ci sono offerte appare da dentro. Non ci sentiamo fuori dalla nostra epoca, al contrario non cessiamo di intrattenere con essa dei compromessi vergognosi. Questo sentimento di vergogna è uno dei più potenti motivi della filosofia. Noi non siamo responsabili delle vittime, ma di fronte alle vittime. E non c'è altro mezzo che fare l'animale (ringhiare, scavare, ghignare, contorcersi) per sfuggire all'ignobile: il pensiero stesso talvolta è più vicino a un animale che muore che a uomo vivo, anche se democratico.»

Il mio alfabeto è fatto tutto di parole che iniziano con la A. Ho iniziato con Acetilcolina. Ho proseguito con Auschwitz. Adesso è il momento di Alzheimer. La terza parola è quella di una malattia, una patologia per lo più senile. Ma non siamo forse tutti quanti affetti da una sorta di Alzheimer politico e culturale? Il morbo di Alzheimer è un processo degenerativo che, per cause non ancora chiarite, distrugge lentamente e progressivamente le cellule del cervello. Si formano grovigli di filamenti neuronali che ci avviluppano in una nebbia di demenza. Un buco nero che inghiotte la nostra identità. I sintomi principali consistono in perdita della memoria, difficoltà di linguaggio, confusione, repentini cambiamenti di umore, disorientamento spazio-temporale, mancanza di iniziativa. Insomma, la memoria se ne va e la volontà di fare collassa: non sembra il quadro preciso della nostra sfibrata coscienza collettiva?
«Tra il 1890 e il 1910 un numero imprecisato di indigeni, variabili tra i quindici milioni e i quaranta milioni, (...) era scomparso in Congo per morte violenta o per fame. (...) Le cartucce dei fucili erano un costo che andava a ridurre i profitti, dunque diventarono una voce di spesa da controllare attentamente. Per indurre ulteriormente i soldati all'economia, si era stabilito che ogni uomo rendesse conto dei colpi sparati non attraverso la consegna dei bossoli, bensì mediante l'esibizione di un corrispondente numero di mani destre mozzate.»
Che cosa dire ancora delle magnifiche sorti e progressive della memoria? Abbiamo accesso a milioni di dati, di informazioni giornaliere, di immagini, di notizie. Ci assediamo come un rumore bianco, saturo, indifferenziato. Le riceviamo e le archiviamo. Compra consuma desidera aggiornati! Grovigli di immagini suoni e parole ci avviluppano in una nebbia di demenza. Ma questo non è il vero lavoro della memoria. Voi lo sapevate che «lo zucchero è in grado di stimolare la produzione di Acetilcolina, aumentando quindi la capacità di acquisire informazioni e di rintracciarle nella memoria»? Anche la nicotina e il caffè hanno questo effetto. E allora che dobbiamo fare per combattere il morbo che si diffonde? Dobbiamo forse bere tutti quanti gran tazze di caffè dolciastro affumicandoci i polmoni con tabacco e catrame, per vedere se ricordiamo meglio? O non è piuttosto che l'eccesso di stimoli informativi continua a produrre carie su carie dentro la nostra memoria collettiva, scavando buchi e voragini nella qualità del sapere, nella facoltà di agire, nella capacità di distinguere ciò che conta da ciò che è superfluo? Non siamo forse tutti quanti impregnati di segni demenziali? Bulimici di novità e anoressici di responsabilità, ipertrofici di spazzatura e deficienti di gesti essenziali, necessari. Ma che cos'è necessario? Non lo ricordo più.
Questo non è lavoro della memoria. Il lavoro della memoria è molto più complesso. È lento, arduo e impegnativo. Però alla fine il lavoro della memoria rende liberi. Avete mai letto questa frase: Arbeit macht frei? Campeggia all'entrata del Lager di Auschwitz: il lavoro rende liberi, ricordatevelo...

Il mio alfabeto è composto di parole che iniziano con la A. Acetilcolina è la prima. Auschwitz la seconda. Alzheimer la terza. E la quarta è Arbeit. In tedesco significa lavoro. Il lavoro rende liberi. Ma il lavoro fa sudare, lo sapete, no? Lo sentite il vostro odore, quando lavorate, quando traspirate, quando faticate? Avete idea della puzza nei campi di lavoro, la puzza di tutti quei corpi ammassati negli stanzoni, smagriti dalla fame e dalle malattie? Avete idea del fetore della promiscuità, senza possibilità di solitudine, nella più bestiale solitudine? Il fetore dei cadaveri sparati, impiccati, gassificati, ammucchiati, trasformati in fumo dentro un camino, dispersi nell'aria, gettati nelle fosse comuni. Non è un film. Non è uno stupido film. È il frutto del lavoro industriale del ventesimo secolo. Quell'orrore non si può ascrivere ipocritamente a una generica barbarie, non è stato compiuto da strani mostri incivili: le patologie di un Hitler non escludono una micidiale razionalità e non affrancano dalle responsabilità collettive. Il lavoro della burocrazia dello sterminio e la retorica patriottica affondano le loro origini nell'orgoglio del libero pensiero e della cultura germanica. Quell'orrore è stato compiuto da uomini e donne che ordinavano, da uomini e donne che ubbidivano, da uomini e donne impegnati a fare bene il loro lavoro. Arbeit macht frei.
Stalin un giorno ha detto: «qualche decina di morti in un incidente sono una tragedia. Milioni di uccisi sono una statistica...». Non capite che di fronte a tutto questo, se non cambia nulla, la cultura è solo spazzatura? La cultura è più fragile delle ossa che vengono spezzate nei primi minuti di una tortura. Lo scrive un intellettuale ebreo, un uomo che si è scoperto ebreo solo quando lo hanno seviziato e portato ad Auschwitz.
Vi ricordate del viaggio involontario che vi ho descritto all'inizio? Dalla materia inorganica ai nostri cervelli mirabili e complessi, micidiali e complessi. Dalle esplosioni delle stelle fino alla mente che decide di uccidere e alla mano che si conforma all'ordine di uccidere. Dall'incandescenza del sole ai bagliori di Hiroshima e Nagasaki. Dalla fornace del sole ai forni crematori. Ne è valsa la pena di fare tutta questa fatica, di percorrere tutta questa strada lastricata di sangue? Lo chiedo alla materia muta che non mi risponde. Lo chiedo agli atomi, agli elettroni e ai protoni. Lo chiedo ai cuori che continuano a battere dentro i nostri toraci.

Ho molti motivi per essere ateo. Il mio alfabeto si scompone in parole che iniziano tutte con la A. Acetilcolina è la prima. Auschwitz la seconda. Alzheimer la terza. Arbeit la quarta. Ateo è la quinta e ultima. Ateo senza esserne compiaciuto. Ateo senza esserne scioccamente fiero. Trovando dentro di me un margine enorme di ignoranza di fronte al mistero delle cose, alla vastità insondabile dell'universo. Qualcuno di voi si domanderà: ma se sei ateo perché ti preoccupi di Dio? Per la cicatrice profonda che questa parola ha inciso nella carne della storia. Perché amputiamo una parte considerevole di conoscenza se ci dimentichiamo di Dio. Perché le nostre verità non esauriscono mai i piani molteplici della realtà. Perché in nome di Dio, Allah e Yhaweh, in nome di tutti i suoi profeti, si continua a uccidere e morire. Perché resto un illuminista, anche se non sono accecato dalla luce arrogante dell'intelletto. Non basta presumere o sapere con geometrica razionalità che dietro ogni sterminio si annida la rete occulta o palese del denaro, del potere, della vanità umana. Non basta per capire. Non basta per cambiare. E allora ho bisogno di ripetere queste parole: come potrei sopportare l'idea di un Dio che ci crea per amore, come potrei sopportarla dando uno sguardo anche solo superficiale alla storia? Dio non può che uscire sfigurato da Auschwitz.

«Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora...
Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
- Dov'è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...»

Non mi venite a raccontare che anche Dio soffre. Al diavolo la sua sofferenza. Non mi venite a raccontare che Dio ci ha creato per darci la libertà di amare e di amarlo. Parole indegne, pensieri indegni. Un Dio miserabile e impotente è quello che esce fuori dai cancelli dei Lager. Mi fa pena, non mi facesse orrore, questo essere supremo così indaffarato a compiacersi nel creare e poi ripiegato su stesso a soffrire per il suo fallimento e per i nostri disastri. Oppure, al contrario, impegnato a guardarci con gelido occhio di astrazione infinita. A chi crede ancora, a chi ancora ha il candore o la sfrontatezza di accogliere dentro di sé l'immagine stucchevole di un creatore buono e onnipotente, non posso far altro che ripetere: ormai "Dio stesso fa parte degli accusati". L'affermazione non è mia, ma di un uomo di fede, un rabbino che rifletteva con irrimediabile amarezza sulla possibilità del perdono di fronte ad Auschwitz.
«E la memoria cede a tanto oltraggio», scrive Dante alla fine della sua commedia divina. Il suo Dio è pienezza di luce che non si può contenere nelle parole, gioia che trabocca e ti lascia soltanto la possibilità stupita di cantare o tacere. Fosse passato di qui, oggi, in tempi irrimediabilmente incapaci anche soltanto di pensare un paradiso, la sua frase sarebbe rimasta letteralmente invariata - «la memoria cede a tanto oltraggio» - ma quest'ultima parola non avrebbe più indicato la dismisura della gloria divina, l'estasi della visione che eccede le nostre possibilità espressive. E invece che cantare o tacere, ci avrebbe ricordato, come un altro poeta scampato dai Lager, che noi possiamo solo balbettare e balbettare.

Il mio alfabeto è giunto al termine. Acetilcolina Auschwitz Alzheimer Arbeit Ateo. Vi prego di ricordare queste parole. Vi prego di ricordare che finché siete in vita vi batte il muscolo cardiaco, che pompa sangue nella carne, nei polmoni e nel cervello. Ricordare vuol dire proprio questo: riportare al cuore, tenere ancora dentro il cuore, accordare il ritmo del proprio corpo alle immagini e alle parole, a tutto quanto non si può scordare, a tutto quanto non si deve dimenticare.

Spesso sono tentato da una sesta parola, da una profonda stanchezza: Amnesia. Per ora vi dico soltanto: dimentichiamoci di Dio. Così sia. Amen. E prendiamoci cura del tempo che ci resta.


NOTE

Non un apparato "scientifico", ma suggestioni e compagni di viaggio:

Libri
Theodor Wiesengrund Adorno, Minima moralia, Einaudi
Theodor Wiesengrund Adorno, Dialettica negativa, Einaudi
António Lobo Antunes, In culo al mondo, Einaudi
Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri
Thomas Bernhard, Antichi maestri, Adelphi
Paul Celan, Poesie, Mondadori
Gherardo Colombo, Il vizio della memoria, Feltrinelli
Gilles Deleuze - Félix Guattari, Che cos'è la filosofia?, Einaudi
Gilles Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat, Cronopio
Brian Fawcett, Cambogia, Instar Libri
Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi
Jean Genet, Dieci Giorni a Shatila, Gamberetti Editrice
Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo
Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi
Haruki Murakami, L'uccello che girava le viti del mondo, Baldini & Castoldi
Paolo Rumiz, La linea dei mirtilli, Editori Riuniti
Edward W. Said, Fine del processo di pace, Feltrinelli
Alberto Savinio, Dico a te, Clio, Adelphi
Barbara Spinelli, Il massacro della conoscenza, La Stampa, 10-XI-2002
Tzevetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti
Simon Wiesenthal, Il girasole, Garzanti
Eli Wiesel, La notte, Giunti
Vladimir Zazubrin, La scheggia, Adelphi
Jean Ziegler, La Svizzera, l'oro, i morti, Mondadori

Musica
Giovanni Lindo Ferretti, Codex
Stormy Six, Un biglietto del tram
John Zorn, Kristallnacht

Film The Believer di Henry Bean
Garage Olimpo di Marco Bechis
Il matrimonio di Maria Braun di Rainer Werner Fassbinder
In un anno con tredici lune di Rainer Werner Fassbinder
Mr Klein di Joseph Losey
Il pianista di Roman Polanski
Il cekista di Aleksandr Rogozhkin


Si ringrazia per le osservazioni:
Claudia Belli, Fabio Bianchi, Davide Bini, Andrea de Luca.



torna in cima   torna in cima