(IO), un attacco

(in memoria di Georg Büchner, +1836)

"Ma l'insurrezione
è...
un'arte"

(K. Marx)

Quando H.G. Enzensberger, nelle paucissime note annesse al suo Mausoleum, dismette il tono ustorio riserbato a inventori e utopisti disastrosi, rilascia al Heßische Landbote una garanzia di attualità perenne. Fino alla fine. Sorprendente il cambio di tono in chi, con dolente sorriso, si era per così dire sollazzato di ridicoli ma non meno terribili, naufragi. Georg Büchner ha avuto in sorte di non naufragare mai. La febbre perniciosa di Zurigo è valsa a balsamo paradossale per una preveggenza che supera ogni nostro ragionevole dubbio. L'incendiario dell'Assia potrà vedere che solo può insorgere colui che sa godere, fondandosi sull'istante assoluto (Dantons Tod). George Danton, "il più grande maestro di tattica rivoluzionaria finora conosciuto" - diceva-sorrideva, più tardi, Karl Marx -, l'eroe che preferisce i piaceri delle Tuileries alle assise giacobine di fronte alle quali, è la Storia a ridere. Danton attraversa il nulla che ogni rivoluzionario deve affrontare e vi trova, al termine, l'infinito sangue terrestre, che ci percorre. Un'indefinita dinamica di violenza e di piacere. Peter Brook leggeva in Büchner la prossima diade Brecht/Beckett, il visionario e distruttore e il pedagogo rivoluzionario. Due, che per Th. W. Adorno, erano accomunati da un'allergia assoluta al buon gusto, per eccesso di buon gusto. Ogni loro frase satura di questo fino all'esaurimento di questo. Nessuna cultura, nessuna speranza, retorica. Cosa attendono ancora la cultura e la speranza? Attendono a una scialba apologetica di un umanesimo già trascorso. Il rivoluzionario, in arte, in politica, ha nemici terribili: brevitas vitae e società ormai senza dissensi, società in cui la sofferenza è ascritta per sempre a nuova produzione di ricchezza. Solo chi soffre, partecipa. Solo nuova sofferenza può infliggersi chi ne ha già tanto subita se vuole continuare a sopportarla, se vuole che divenga stato di natura e, infine, per i privilegiati, movimento di ascensione sociale. Società che disprezzano solo coloro che da questa universale sofferenza non riescono a tirare alcun utile: i Woyzek. Società palesemente fondate sul sacrificio umano che, al vertice di titanismi e controllo, deve essere totale, benché sminuzzato e irrintracciabile. La percezione è sempre più debole a questo, chi impazzisce converte contro sé l'arma che da sempre già gravitava su di lui, in lui. Woyzek come Endgame o Mann ist Mann? Quest'ascendenza mostra solo che tutto è partito da molto lontano, e che la smemoratezza di Lenz, il vuoto che porta in pegno alla folla di Strasburgo sono solo l'introibo della somatizzazione totale di tragedie di là da venire e così enormi da polverizzare d'ora in avanti qualsiasi senso del senso.
Colpevolezza totale è richiesta. Non davanti al divino (di fronte al quale è l'innocenza comunque che conta, come sosteneva in mirabile saggio, Walter Benjamin), non davanti al sangue che riempie di sé anche il nulla. "Le confiderò un segreto: il linguaggio, è la punizione", disse Ingeborg Bachmann a un gazzettiere.
Rien ne sert à rien mais il faut le faire / Et sans être là je suis où je suis / Préférer je dois ce que je préfère - crittografava Cocteau (1954), con geniale spensieratezza canzonettistica, crittografava uno stato di coscienza che per uscire di anagkh può sperare ormai solo nella tragedia, il più verticale, e infine, orizzontale, possibile.
Di fronte a questo abisso di servitù impossibile, di fronte al non senso radicale cade allora quella che è la più grande scepsi contemporanea contro il rivoluzionario: perché ribellarsi se non serve a niente? Ma chi dice che ribellarsi dovrebbe servire... La smemoratezza di Lenz, la fine di Woyzek sono il nostro avvenire. L'io ha cessato da tempo di essere un requisito d'ordinanza di ogni componente della specie umana. Anonimi come le società che ci governano, ci sfogliamo come procedure, come manualetti stagionali, perficiendi e disponibili. (Mentre, beffardamente, semi-consapevoli sgherri, gli psico-araldi di regime clamano contro l'intellettualismo e il narcisismo, che la comunicazione va semplificata, ancora, di più, usque tandem...)
La ribellione non serve. Non serve a niente? E la decadenza e rovina, comuni? Büchner non si è mai arreso. La ribellione è l'unico gesto possibile, ci ha detto. L'uomo-sigla può tornare ad essere IO solo al prezzo (assolutamente gratuito) di essere una forma, incarnata, della gioia. Qualsiasi altro stato è consapevole resa. Il "vuoto spaventoso, senza angoscia, né desiderio" di Lenz è una peste che entra a Strasburgo, è il vortice della follia contro il consenso. È la negazione della vita che sta a fondamento del vivere sociale e, nell'avvertirsi finalmente, si scopre di soprassalto vitale diniego. Giocare la morte contro la morte. La vita gioca alla morte perché vorrebbe scoprirsi, amore, senza condizioni. Quel vuoto esiste come identità reale fuori delle declinazioni societarie, o meglio è il loro pensiero in noi. La ribellione non serve. La ribellione è l'unico gesto possibile. La ribellione non è speranza, non è cultura. È l'ultima parola della speranza e della cultura, compressa in un solo istante, questo.
"In secondo luogo, una volta cominciata l'insurrezione, si deve agire con la più grande decisione e passare all'offensiva. La difensiva è la morte di ogni insurrezione..."
La difensiva è la morte. Diceva Danton (citava Karl Marx), asseverava lo scriba insorto: De l'audace, de l'audace, encore de l'audace.
Niente e nessuno potrà fermarci, mai.
Io, l'insurrezione, mi chiamo (anche) Paolo Spaziani



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