RETHINKING MODERNITY

Conferenza Internazionale
Mosca 25-28 Ottobre 2002



R.I.S.A.
Russian International Studies Association

Moscow State University

Moscow State Insitute of International Relations
M.G.I.M.O. University


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Presentation of the Conference

Vjacheslav Igrunov
Deputy of the State Duma, chairman of the Organizing Committee of the conference.

September the llth has become the symbol of new problems (threats), the world community had to realize. We confronted with the opposition of some parts of the world which consider that they were deprived of appropriate welfare of civilization and somebody wealthy - american imperialism for instance or imperialism in general - is to be blamed. That's why when conceiving events of September the 11th we should do it not only in the context of modern clash between western world leader -USA and Islamic fundamentalists, as USA are trying to present. The basis of this clash is more profound, and the threat is not centured in so called ..Empires of Evil.. or concrete stales. The threat may originate from Iraq, but as well from the citizens of the Untied States, for it's already obvious that they took part in the acts of terror.

The second issue which is worth discussing nowadays is the following - crucial changes are taking place in the world now, it's difficult for governments to rule the world because transnational corporations own more power than the main part of the states of the world.

There is one more obvious question - the world is on the urge of serious changes. Modern democracies are trying to fight against terrorism, restricting democracy and human rights, their communities.

In my opinion this tendency is inevitable and taking into account today's course of events the major democratic values may be called into question. How is the world to develop, to strive for stability and agreement. This is the key question of the present.

First of all we wish our conference would assist Russia to become an equitable partner in the discussions of modern processes.

And we'd like to draw the attention of top-level political figures to the complicated processes which we consider: to solve the posed problems it's necessary to nit the efforts of the whole world elite.

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Program of the Conference

October, 25

17:00 Inauguration of the Conference.
MGIMO. Hall 2.
  Address by:
Anatoliy V. Torkunov - Rector of MGIMO, President of the Russian International Studies Association.

  Vjacheslav V. Igrunov - Chairman of the Organizing Committee. Deputy of the State Duma of the Russian Federation, Director of the International Institute of Humanitarian and Political Studies.

  Vladimir P. Lukjn - Deputy Head of the State Duma.

  Victor A. Sadovnichiy - Rector of MSU.

  Vladimir A. Ryzhkov - Deputy of the State Duma.
19:00 State reception at the Sankt-Petersburg hall of the Hotel "National".

October, 26

10:00 - 12:30 Round table «Turning points of history and world order».
"House of Unity"
  Chairman - Hayward Alker
Presentation of the problem - Peter Wagner
14:00 - 16:30 Round table «Prospects of evolution of the state in the modern world».
"House of Unity"
  Chairman - Andrey Y. Melville
Presentation of the problem - Axel Hadenius
17:00 Entertainment program.

October, 27

10:00 - 12:30 Round table «New threats and challenges to intrnational security».
"House of Unity"
  Chairman - Ivan G. Tulin
Presentation of the problem - Robert Axelrod
14:00 - 16:30 Round table «New economic structures and world politics».
"House of Unity"
  Chairman - Richard Griffiths
Presentation of the problem - Victor M. Sergeev

October, 28

10:30 - 12:00 Closing of the Conference. Review of results.
MSU, main building.
12:30 Dinner.

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La schiavitù del cerchio

...nessuno alzerà gli occhi al cielo...
Giordano Bruno



GLANZLOSER, ganz
nach innen genommener Blick...

Senza splendore, tutto
preso in se stesso, lo sguardo...
Paul Celan

Da uno sguardo mancante a uno sguardo mancato: Bruno, Celan. Nel tragitto di questo circuito chiuso, di questo corto circuito in cui collassa la ragione ottica della modernità, si iscrive il gioco tragico del cerchio, il giogo del cerchio che proverò a descrivere, dal punto fragile e centrale della mia voce. Luogo effimero di irradiazione di un suono, di un senso: la voce, appunto. Che può ammantarsi di funambolismi verbali e architetture di astrazione, di compiacimenti analitici e spinte progettuali, performative - come forse accadrà anche nel mio caso - ma soltanto ingannando, in se stessa, i due estremi da cui prendo le mosse per questo mio discorso - quelli delle citazioni in epigrafe, che ci parlano di uno sguardo (non più) rivolto verso l'alto e di uno sguardo ripiegato su se stesso, in simmetrica e speculare opacità - estremi che si toccano, nel giro di vite del cerchio, condensando la devastante, inascoltata storia dell'occhio umano.

Parto con Giordano Bruno, che può rappresentare, soprattutto nella sua data estrema, l'anno 1600, uno dei tanti incipit simbolici dell'era cosiddetta moderna.

All'inizio del nostro percorso troviamo un grande incendio, quello del pensiero che si fa strada nella giungla asfissiante della tradizione aristotelica e cristiana e inaugura una visione totalmente nuova dell'uomo e del cosmo. Un pensiero che prende a scardinare dalle fondamenta gli orizzonti simbolici e materiali in cui per secoli si era mossa la specie umana su questo pianeta. Un pensiero che viene censurato, rifiutato e ucciso.

Il rogo di Campo de' Fiori a Roma, il 17 febbraio del 1600, in cui il più geniale e coraggioso filosofo dei tempi "nuovi" viene arso vivo dall'Inquisizione della Chiesa Cattolica per le sue opinioni eretiche e pericolose, può rappresentare uno dei tanti eventi sintomatici dell'avvio dell'epoca storica che chiamiamo modernità. Al grande incendio metaforico del pensiero che fa tabula rasa di molti aspetti della tradizione, corrisponde il piccolo incendio concreto, tragico e infame, che vuol distruggere e ridurre in cenere, insieme al corpo, anche il valore destabilizzante delle visioni e delle parole che lo hanno abitato. E in qualche modo, malgrado la sopravvivenza degli scritti e della memoria, possiamo affermare che una vera e propria rimozione di questo evento attraversa ancora le fibre della nostra epoca.

Tanti altri sono i riferimenti accreditati sul calendario degli ultimi cinque secoli per questo artificio della periodizzazione storica: dall'invenzione della stampa a caratteri mobili alla cosiddetta "scoperta" delle Americhe, dalla costituzione dei grandi stati centrali allo sviluppo della borghesia mercantile e finanziaria, dalla Rivoluzione americana alla Rivoluzione francese. Qualunque scelta univoca paga lo scotto di essere riduttiva. C'è immancabilmente un dato arbitrario e convenzionale nelle pratiche storiche e sociologiche, soprattutto quando decidono di imporre dei confini definiti e rigidi alla valanga del tempo. Quando battezzano il divenire del mondo, credendo così di capirlo, di controllarlo, di addomesticarlo.

Valga, quindi, la parzialità di questa mia scelta, come decisa e consapevole posizione di problema, come intenzionale provocazione, e non come scomposta e opinabile ricostruzione scientifica.

Il riferimento a Giordano Bruno non si limita al riconoscimento della sua figura come emblematica della nascita del pensiero laico e materialista europeo, considerato come frutto più maturo e articolato dell'Umanesimo rinascimentale. Ma si riferisce, piuttosto e soprattutto, al ruolo che Bruno ha rappresentato nel portare a primo compimento la rivoluzione scientifica copernicana, sottraendo al pianeta terra la posizione centrale nella gerarchia di un universo considerato fino ad allora creato e finito. Un universo sostanzialmente statico in cui all'immobilità si attribuiva un valore originario ed eccellente. Ebbene, con Bruno tutta la materia si rimette in movimento, in continua, inarrestabile metamorfosi. Il nostro globo terrestre viene scardinato dalla sua posizione di asse antropocentrico del creato. Lo spazio e il tempo si spalancano sulle regioni completamente inaudite e destabilizzanti della vastità, della molteplicità, della mancanza di centro, della fragilità luminosa e marginale del pensiero umano che schiuma come la cresta di un'onda nel gran mare dell'essere.

Ma le dinamiche storiche sembrano risentire ben poco o niente affatto di questa sconvolgente trasformazione, che raggiungerà il suo culmine nel XX secolo, con la teoria della relatività ristretta e generale di Einstein, la teoria quantistica della materia, la verifica telescopica ed elettromagnetica della natura dinamica, aperta e magmatica del nostro universo in continua espansione.

Sembra che il vettore delle trasformazioni e delle vite umane si sia sempre più appiattito, irretito in una geometria orizzontale e asfittica, miope e violenta, totalmente ignorando questo sfondamento di pensiero, questa sconvolgente novità percettiva. Non appena il cielo si è rivelato in una maniera prima inconcepibile, scaraventandoci nel vuoto e nella deriva infinita di miliardi di galassie e ammassi di materia infuocata, nessuno sembra più interessato a guardarlo, come affermava appunto Giordano Bruno. Definendo, con questa sintesi vertiginosa, la natura di crisi, di "notte del mondo", che attraverserebbe la nostra civiltà. Incapaci di sguardo verticale, incapaci di assumere questa nuova realtà come seconda vista che ci accompagni in ogni gesto pensiero e azione, siamo sempre più ingabbiati nelle trame anguste di una storia umana, troppo umana, che anche in virtù di questa miopia orizzontale, di questo sconcertante disinteresse percettivo, si fa sempre più violenta, disumana. E, nella fase attuale, apparentemente votata a un collasso senza prospettive.

Può sembrare una ricostruzione estetizzante, fuorviante rispetto agli ambiti trattati in questo incontro. In qualche modo può apparire che il nostro discorso sia troppo campato in aria, con la testa tra le nuvole...

Ebbene, riparto allora dalla genesi del titolo del mio intervento: la schiavitù del cerchio.

Un titolo, per me, riveste il valore di dispositivo di cattura, atto ad intensificare la disponibilità di ascolto del pensiero, a potenziare e sottolineare aspetti insoliti di un problema, di un'ossessione. A mettere in cammino la scrittura, piuttosto che a tracciarne il punto di arrivo. Non chiude un percorso, ma lo inaugura, lo fomenta, lo propizia. Non lo definisce in maniera sintetica, conclusiva e rassicurante, ma determina una differenza di potenziale che permette il movimento, che obbliga al movimento. E spesso si avvale della potenza del caso.

In questa circostanza, l'espressione "schiavitù del cerchio" è germogliata a partire da un'ennesima, banale e distratta osservazione di un tramonto: il disco rosso del sole infiammato sopra l'orizzonte del mare. Il pensiero è rimbalzato subito all'abitudine, ben poco grata nei confronti delle conquiste scientifiche del moderno, di continuare a chiamare quell'evento quotidiano "tramonto". Abituarsi a una parola è come prendere un vizio, diceva qualcuno. E tutti i vizi, tra l'altro, hanno struttura circolare, ricorsiva. Tutte le forme di dipendenza ci fanno tornare allo stesso punto, ci invitano al ballo tondo della ripetizione coatta.

Di associazione in associazione, mentre il sole "tramontava", mi si è affacciata allora un'intera costellazione di cerchi incantati entro cui ci muoviamo, entro cui, soprattutto, ci illudiamo di muoverci, in una sorta di "danza immobile": l'alternarsi di giorno e notte e l'alternarsi di sonno e veglia, in virtù della rotazione della terra attorno al proprio asse, che strutturano i ritmi di funzionamento del corpo, della vita relazionale, del lavoro; il susseguirsi di vuoto e pieno nella dialettica semplice e inaggirabile di fame e sete; i flussi e riflussi ormonali e la "circulata melodia" psicologica che sottendono le meccaniche del piacere e del desiderio sessuale; i cicli stagionali, che determinano ancora gran parte delle nostre attività e del nostro sentire, grazie alla rivoluzione del pianeta attorno al sole; la strutturazione della nostra memoria collettiva in base a un calendario di dodici mesi, fatto di ricorrenze e celebrazioni; la macchina burocratica annuale dei prelievi fiscali e dei finanziamenti statali; il girotondo instancabile dell'economia reale, che dalla produzione conduce al consumo e tramite il consumo sollecita la produzione, in un incremento spesso patologico ed esponenziale di domanda e offerta, di "bisogni" artificiosi e nevrotici tipici delle società opulente; fino ad arrivare alle dinamiche astratte, ma terribilmente concrete nei loro effetti, del capitale finanziario, vero padrone incontrastato di questa fase storica, che sembra posseduto dalla logica aberrante del cattivo infinito, come avrebbe detto Hegel: un "vettore circolare" di speculazione-accumulo-e-nuova-speculazione, senza interruzioni, senza limiti, senza mai essere sazi, senza mai raggiungere una meta definitiva, provocando tempeste su interi continenti e al contempo esso stesso in balia dei venti che ha suscitato...

Insomma, dall'immagine del tramonto si è sprigionata questa proliferazione della figura circolare, che parte dalle dinamiche del mondo naturale e dei suoi ritmi cosmici per sfociare e traboccare nell'estremismo vorace e incontrollato di quella vera e propria seconda natura che è la storia, soprattutto recente, dell'homo faber.

Il modello di società e di sviluppo capitalistico - che sembra ricoprire ormai il ruolo di realtà unica, priva di alternative plausibili e immediatamente auspicabili - è pervaso da questa prometeica tracotanza strutturale, una sorta di delirante danza del derviscio senza alcun compenso mistico o sapienziale, un'esaltazione all'infinito della logica aberrante del cerchio che ci sta portando al collasso...

Siamo ancora in grado di percepire questa immane coazione a ripetere come una malattia? O ne siamo così pervasi da ritenerla inevitabile se non addirittura ovvia, scontata? Se il moderno si configura anche e soprattutto come consapevolezza del nuovo e sua affannosa ricerca - estetica, sociale, produttiva - non ci troviamo forse ad aver appena attraversato un secolo che ha fatto della novità a tutti i costi la sua ossessione, della ricerca di stimoli sempre più intensi la sua deriva verso l'esaurimento nervoso delle fibre stesse della nostra cosiddetta civiltà?

La modernità, nelle sue ultime propaggini - industriali, tecnologiche, comunicative, finanziarie, spettacolari - appare sempre più come una smisurata insonnia della ragione e del corpo: gli occhi del mondo non si chiudono mai. Gli occhi del mondo non hanno palpebre. E forse proprio per questo sono accecati. Nessuna pausa, nessun "giorno di festa", nessuno stacco effettivo, sostanziale e qualitativo, dal lavoro che diventa febbre del fare senza confini di spazio e di tempo. Nessuna interruzione del ciclo di produzione e consumo, di accumulo e movimento dei capitali. Il denaro non dorme mai. Il denaro ci trascina in questa marcia allucinatoria. E al tempo stesso la piena occupazione si fa sempre più insicura, frammentata e flessibile - come è di moda dire adesso - a differenza di quanto predicato e incarnato dal modello fordista e taylorista che ha dominato l'inizio del ‘900.

La "vita attiva" del mondo "sviluppato" o "in via di sviluppo" appare inesausta, febbrile, posseduta da un moto inerziale, ipnotico. Perché se il denaro non dorme mai, d'altro canto noi sembriamo tutti sotto narcosi, sonnambuli e automi immersi in questo stato onirico smanioso e irragionevole. Addirittura, per il livello di intossicazione raggiunto, non proviamo disagio consapevole per questa frenesia, ma ne facciamo paradossale esperienza di fronte al silenzio, alla stasi, al raccoglimento, alla presa di distanza, all'interruzione momentanea di senso e di segnale.

Insomma, l'assunto metafisico fondamentale che sottende il capitalismo e che pervade ogni aspetto del fare e del comunicare nelle nostre società è il senso dell'illimitato, come afferma Marco Revelli nel suo "Oltre il Novecento". Con un orizzonte distruttivo di medio-lungo termine che da circa trent'anni molti analisti, delle più svariate estrazioni e scuole, ritengono possa diventare un punto di non ritorno. E con pratiche di distruzione locale e massificata già in atto da un secolo. Il tutto considerato sempre di più, a livello mondiale, e a prescindere dai cosiddetti vecchi schemi di riferimento della politica novecentesca - destra, sinistra, centro - un destino inevitabile, un prezzo tragico ma necessario da pagare allo "sviluppo", alla difesa delle democrazie, alla libertà di mercato e ad altre mistificazioni retoriche, o sinceramente ottuse, di questo tenore.

Siamo vittime di una sorta di altalena che può quasi apparire fatale: in ogni processo di liberazione e crescita sembra insito un veleno di segno contrario: perdita, sfacelo, rovina, sopraffazione, oblio, degenerazione. Così come a ogni progresso tecnologico fa seguito l'atrofizzazione di una parte del corpo, all'aumento stesso di complessità rispetto ad alcuni fattori corrisponde una perdita analoga di complessità rispetto ad altri: attitudini individuali, livelli di convivenza, qualità della comunicazione, ampiezza del sapere, capacità logiche.

Ma i limiti, che sembrano essere oltrepassati ad oltranza, esistono. Sono quelli dell'ambiente che non può essere saccheggiato e violentato con modalità e tempi indefiniti. Sono quelli delle sacche di miseria e sfruttamento umano che si moltiplicano di giorno in giorno. Sono quelli delle civiltà tradizionali e dei particolarismi etnico-geografici che rigurgitano il proprio rifiuto, senza rappresentare un'auspicabile via di fuga, ma soltanto un incubo minaccioso di regressione e oscurantismo. Sono quelli delle crisi strutturali di occupazione-produzione-consumo, che non potranno trovare palliativi ad infinitum, soprattutto quando queste valvole di rilancio assumono i connotati di sempre maggior sfruttamento e iniquità sociale o addirittura, in maniera strategica e cinica, di guerre pianificate per mantenere l'egemonia politica e per uscire dalle fasi di stagnazione economica: spargere sangue pur di rimettere in moto la circolazione esangue del denaro...

I limiti, ancora, sono quelli della razionalità calcolante e specialistica, che presume aver raggiunto il massimo grado di controllo tecnologico, statistico e predittivo, ma si scopre di volta in volta vittima proprio di quel mondo della complessità che le ha permesso di formarsi; in balia di fattori imprevisti e incalcolabili, di elementi caotici non sussumibili dentro le griglie matematiche di nessuna teoria delle catastrofi, perché ogni catastrofe - tranne quelle decise a tavolino e provocate - trascende per definizione le facoltà di diagnosi preventiva, di computazione algebrica delle sue multiformi possibilità espressive.

E i limiti sono anche quelli di una razionalità individuale diffusa, prettamente autoreferenziale, che opera solo nell'ambito angusto del breve termine. Dove per "individuo" si intende: singolo essere umano; gruppo omogeneo di persone; insieme trasversale ed eterogeneo di singoli e gruppi; sistema complesso ma pur sempre parziale di interessi, votati all'esclusiva lotta per la propria affermazione immediata, senza vincoli di reciprocità con altri da sé e con altro da sé. Insomma, un atomo o un insieme di atomi sganciati da qualunque appartenenza molecolare e comunitaria normata in base a regole che trascendono la volontà assoluta dei singoli stessi. A questa forma imperante di soggettivazione polverizzata dei desideri e delle pratiche sociali dovrebbe essere affiancata, se non proprio contrapposta, una razionalità collettiva ed "ecologica", intenzionata e in grado di operare sul lungo termine, dotata di strumenti e poteri per limitare le spinte dilaganti della strategia operativa dei mercati, la cui fisionomia è sempre più indistinguibile da quella prepotente e autonoma del crimine organizzato tout court.

Ritorniamo, con questa considerazione complessiva, al luogo di nascita delle consuetudini e dei valori civili moderni: la Rivoluzione francese e l'universalismo della giurisprudenza - leggi astratte applicate come contenimento dell'espansività dei singoli e al tempo stesso, in un gioco di equilibri di volta in volta rinnovato e contrattato, come tutela dell'esistenza dignitosa e creativa dei medesimi, come garanzia delle pari opportunità offerte ad ogni cittadino.

Non è la libertà intesa come feticcio faustiano di totale autonomia, ma il patto sociale dinamico il vero spartiacque della modernità. Dinamico perché non definito una volta per tutte, ovverosia "vivente", come affermano alcuni costituzionalisti italiani, alla stregua di un sistema adattativo complesso di fronte alle trasformazioni del proprio ambiente, ma a differenza di questo intoccabile e rigido nei suoi principi di equità sociale e libertà di espressione.

Ci ritroviamo ancora dentro uno dei momenti della storia dell'occhio, del suo modo di mettersi in relazione con la luce: Aufklärung, Illuminismo, età dei lumi: lo sfolgorare di questo iperumanesimo razionalista, culminato con l'invenzione del diritto, della giurisprudenza...

Ma, senza affrontarne qui tutte le sfumature e contraddizioni interne - si pensi una volte per tutte alla "Dialettica dell'illuminismo" di Adorno e Horkheimer - e saltando direttamente alle urgenze del nostro tempo, mi domando: come ripensare e applicare questa eredità ancora vivente, seppur svilita, di fronte allo strapotere di fenomeni sovranazionali e per lo più extragiuridici, come quelli della mondializzazione dei mercati leciti e illeciti o della globalizzazione finanziaria? Come reclamare efficacia per uno spettro di "diritto internazionale", quando gli organi applicativi del medesimo non esistono, o se vigenti, vengono di giorno in giorno svuotati di forza, di credibilità, di autonomia decisionale? Qual è l'eventuale punto di appoggio per questa leva archimedica di contenimento e di controllo, tanto più urgente quanto negletta, a partire soprattutto dal 1989? Quali i soggetti - stati egemoni, istituzioni internazionali non elette democraticamente, multinazionali, borse - che siano disposti, in questa fase storica, a depotenziare il proprio ruolo, a limitare le proprie funzioni, a depauperare la propria dissennata capacità di imporre linee di "sviluppo" e di "investimento"? Nessun dio moderno sembra disposto ad operare quel drastico e inaudito gesto di ribaltamento del segno ipertrofico che caratterizza il concetto di creatività che noi conosciamo e pratichiamo. Nessuno è disposto ad abbandonarsi cioè a regole e misure che conducano fino a quella "scandalosa" contrazione di se stesso denominata Tzimtzùm, che rende possibile la presenza di altro da sé, come accade allo Yhaweh di un filone del pensiero cabbalistico del ‘500...

Certamente rappresenta un segno apprezzabile dello "spirito del tempo" che il richiamo alla necessità e all'urgenza improcrastinabile di regole per governare i mercati nazionali e internazionali provenga da aree diverse e talora addirittura opposte delle società sviluppate - si pensi alle dichiarazioni e ai progetti di un magnate della finanza internazionale come George Soros, ai ripensamenti critici dell'ex vicepresidente della Banca Mondiale John Stiglitz, alle posizioni di economisti come Amartya Sen, Samir Amin, Daniel Cohen, fino ad arrivare alla variegata compagine dei movimenti di contestazione ai processi di globalizzazione incontrollata.

Ma, preso atto di questa élite preoccupata e di queste minoranze a vario titolo alternative alle tendenze dominanti, sembra anche, in parallelo, che si stia verificando una progressiva e catastrofica crescita della povertà e dello sfruttamento, della mortalità per fame, sete, malattie, nonché di vere e proprie forme schiavitù: quelle causate dalla delocalizzazione dei mercati del lavoro per abbattere i costi di produzione, approfittando di regioni dove non sussistono o sono blandi i sistemi di tutela sindacale; quelle che approfittano delle masse di migranti da tutti i sud del mondo, dalle zone di guerra senza fine, dalle sacche di miseria cronica, per andare a ingrossare le fila del lavoro nero; quelle, in confronto meno drammatiche ma subdole e invasive, che si diffondono a macchia d'olio nelle società del benessere, con la crisi dell'occupazione fissa e l'incremento esponenziale della precarietà, che diventa strumento di ricatto psicologico e materiale, con una sorta di ritorno a una lotta pre-civile di sopravvivenza senza contesto collettivo, un frantumato isolamento individualista che conduce al bellum omnium contra omnes.

A questo si aggiunga la decadenza apparentemente irreversibile delle strutture pubbliche di assistenza sanitaria e di educazione pubblica - ovvero del modello di Welfare State che ha dominato la seconda metà del secolo scorso - cui si risponde meccanicamente e disastrosamente con la privatizzazione, la specializzazione professionale, producendo discriminazione in base al reddito, tracollo dei legami di solidarietà, involuzione delle forme di partecipazione democratica alle scelte comuni, analfabetismo di ritorno, insicurezza sociale disgregante.

Tutte queste linee di tendenza generali, tra l'altro, contribuiscono attivamente ad abbattere un altro degli elementi fondanti del moderno, la memoria storica come fattore di crescita e di consapevolezza critica.

In quest'età dell'ansia e della velocità, dell'eccesso informativo e della mobilità mercuriale, dell'incertezza e della minaccia permanenti, quanti hanno tempo, capacità e soprattutto contesti comuni per coltivare una facoltà collettiva di ricordare il passato, per consolidare e difendere principi etici condivisi? Quell'epoca che, con un'innegabile precipitazione e fatuità ottimistica, si è voluto definire post-moderna - intendendo questo movimento di separazione temporale come liberazione dai fardelli ideologici e dalle pesantezze strutturali della stessa modernità - appare senza dubbio connotata da un diffuso e allarmante collasso della coscienza storica.

«Il paradosso della nostra generazione è che tutto il mondo profitta ora di una pedagogia fornita dall'Occidente, con la sola eccezione dell'Occidente stesso.»

Questo affermava già oltre cinquant'anni fa un grande storico e diplomatico inglese, Arnold Toynbee. E ne individuava la causa principale nell'etnocentrismo miope e pasciuto della nostra civiltà, che non ha ancora mai subito un «trattamento senza cerimonie» come quello che essa ha impartito agli altri popoli.

Sembra che nessun evento - da quello dell'11 settembre 2001, enfatizzato come epocale sugli organi di stampa americana ed europea; fino alle continue catastrofi belliche, finanziarie, politiche, ambientali - abbia la capacità di scuotere nella loro essenza i nostri assetti sociali, le decisioni pubbliche, le tendenze dominanti. Al contrario, si continua a propagandare un'immagine mistificatoria di eterno presente, escludendo come ingenua ed estremistica qualunque alternativa. Quando l'unico minaccioso estremismo sembra consistere proprio nel continuare lungo la strada intrapresa.

Ma se quella breve parentesi concettuale che si è battezzata postmoderno si traduce in pensiero orgogliosamente senza fondamenti, in pura retorica decostruttiva e in fluidità virtuale priva di attrito con la durezza delle cose, questa pallida larva di pensiero è di sicuro votata a morire inghiottita dal mare dell'essere umano, dalla sua voracità di fare e disfare, dalle sue infinite derive polimorfe, dalla sua connaturata pesantezza e da una abrasività dolorosa, ineliminabile. Dotato di una capacità descrittiva superficiale e per lo più irresponsabile, il gergo effimero del postmoderno risulta sempre più inutile come antidoto ai veleni da cui siamo intossicati.

La schiavitù del cerchio di cui stiamo parlando determina l'oblio, la cecità e l'introiezione compulsiva dello sguardo, narcisisticamente incapace di aprirsi ad altro da sé. Cecità e oblio sono costruiti con architettonica precisione, eppure senza mai poter attingere l'assoluto del controllo perfetto e dell'equilibrio definitivamente raggiunto: qualcosa sfuggirà immancabilmente dalla meccanica calcolante dei fini, dalla griglia violenta o subdola dei poteri, dagli schematismi istupiditi di tutti i diversi fondamentalismi: religiosi, mercantili, spettacolari, edonistici, qualunquisti. E allora qualcosa tornerà, magari per pochi istanti, a folgorare il nostro occhio, a rimescolare le carte archiviate della nostra memoria.

Ritorniamo dunque alla parabola dello sguardo da cui abbiamo preso le mosse. Poiché in questo consiste, essenzialmente, il gioco circolare del percorso che vi propongo. Gioco già inscritto del resto nel titolo stesso del nostro incontro: Re-thinking Modernity, dove l'accento principale cade sul prefisso che indica ritorno e ripetizione, sull'atto di gettare un nuovo sguardo (e magari anche uno sguardo nuovo?) sul proprio tempo, sul tentativo di balbettarne altrimenti le caratteristiche principali e le possibili prospettive.

Abbiamo iniziato con il rammarico epocale di Giordano Bruno rispetto a questo occhio impaludato nell'orizzontalità terrestre, indifferente alla contemplazione di altro da sé, e in particolar modo alla possibilità di acquisire per la propria vista e per il proprio sentire un paradossale fondamento cosmologico, vero e proprio Ab-grund, abisso senza fondo, in cui la percezione parziale e intuitiva dell'infinito potrebbe rappresentare, al di là del valore contemplativo e delle vertigini da smarrimento, un diverso approccio alle nostre spinte pulsionali, un ridimensionamento qualitativo e quantitativo della macchina desiderante, una consapevolezza dei limiti incarnata nella pratica quotidiana collettiva e non soltanto vissuta come cognizione intellettuale del singolo individuo.

Ciò che Bruno vuole proporre non è un "buon infinito" di matrice antropomorfica, ma piuttosto una trascendenza sui generis, né mistica né confessionale, bensì percettiva e materialista: il dominio dell'astronomia - infinito dell'universo e finitezza mortale dell'esistenza umana - che incarna la nostra immanenza continuamente rimossa, impensata, non avvertita con profondità e pazienza dal nostro corpo e dalla nostra mente. Nulla di astratto e intangibile. Al contrario, la realtà più potente e ineccepibile che ci appartenga, se frequentata quotidianamente, come vera e propria forma di educazione, di cultura, e quindi, potenzialmente, di etica. L'esperienza dello stupore di fronte alla vastità cosmica e alla nostra fragilità di esseri pervasi da correnti magnetiche e dispersi nel caos illimitato e insensato delle galassie, potrebbe nutrire una visione più organica e umile del nostro stare sulla terra. Insomma, coltivare il senso dell'illimitato attorno a noi potrebbe condurci a riflettere e agire diversamente rispetto al nostro continuo assalto ai limiti.

Ma questo, lo sappiamo, è mirabile utopia aristocratica, humour di un'intelligenza senza speranza eppure tenace. Qualità tutte che hanno meritato a Bruno, tra l'altro, di essere ridotto in cenere dai propri simili. Perché la visionarietà suscita immancabilmente un sorriso di sufficienza e di scherno, sia da parte del potere dei pochi che da parte dell'impotenza dei molti.

E sempre di fumo e cenere si tratta, in altro modo, per quanto concerne la seconda citazione di apertura, quella tratta da una poesia di Paul Celan, che ci riporta nel centro meduseo del XX secolo. La sua esperienza di uomo e di scrittore viene segnata dalla Seconda Guerra Mondiale, dalla deportazione e uccisione di tutta la sua famiglia in un campo di concentramento nazista, dall'annichilimento fisico e morale perpetrato con metodo scientifico da un'intera nazione "civile", dal genocidio burocratico e industrializzato della Shoah.


Senza splendore, tutto
preso in se stesso, lo sguardo...


Quest'immagine intima e psicologica, fortemente connotata a livello biografico, la propongo come cifra più generale della macchina cieca, priva di luce, tendenzialmente autistica, che guida con sconsiderata supponenza i passi e i pensieri di uomini e donne in mezzo ai disastri del tempo presente. Un presente che ci ritrova sempre più anestetizzati e sempre meno capaci di elaborare risposte.

Non suoni eccessivo o irriverente l'accostamento. La contabilità dell'orrore degli ultimi cento anni (Nazismo, Fascismo, Comunismo, Integralismo religioso, Capitalismo - tanto per citare i principali protagonisti della mattanza) smentirebbe quella sensazione. Certo, ogni evento storico, ogni manifestazione di violenza e di sofferenza, vanno considerati nella propria incomparabile singolarità, mantenendo viva e attenta la nostra capacità di distinguere, evitando l'imperdonabile imbecillità di un giudizio omologante e qualunquista.

Resta l'inquietante "comune denominatore" di una violenza che pare connaturata in modo irrimediabile a ogni sistema sociale, sia esso ammantato di utopia della liberazione, di propaganda tradizionalista e oscurantista o di ideologia pragmatica della libertà: una analoga hybris demoniaca e tuttavia, al tempo stesso, normale e banale, a suo modo e nel suo ambito, addirittura, "razionalissima".

In Paul Celan lo sguardo introiettato e deprivato di splendore ci parla dell'implosione dolorosa di un'esperienza incancellabile, dell'impossibilità di cicatrizzare una volta per tutte. Nell'utilizzo improprio e allegorico che propongo, come cifra più ampia del corso storico vigente, quell'immagine rivela un'ostinazione ottusa a praticare soltanto il proprio orizzonte di possibilità, elevato a valore universale ed esclusivo, strutturalmente incapace di aprirsi ad altro da sé.

La schiavitù del cerchio è anche questo: ripetere gli stessi gesti, le stesse parole, gli stessi schemi mentali, non apprendere dal passato, applicare gli stessi modelli interpretativi e pragmatici, compiacersi del perdurare di risultati di controllo e dominio della realtà, non affrancarsi mai da se stessi...

La stessa parola schiavo, del resto, deriva, sia nelle lingue neolatine che in quelle anglosassoni, dalla riserva di alterità "assoluta" e "barbarica" che, essendo stata debellata, sfruttata e umiliata, garantiva il benessere della propria civiltà: schiavo è il latino slavus, slavo, lo straniero che diventa preda e proprietà privata del vincitore, colui che non facendo parte della propria etnia, del proprio cerchio magico collettivo e simbolico, può essere ridotto a strumento, a mezzo, a semplice oggetto utilizzabile e funzionale.

«Non esistono schiavi che siano anche cittadini. Sono sempre gente di fuori, introdotti dapprima nella città come prigionieri di guerra. Nella società indoeuropea primitiva come nelle antiche società non indoeuropee (sumero-accadica, per esempio) lo schiavo è un uomo privo di diritti, sottomesso a questa condizione in seguito alle leggi della guerra», come ci ricorda Emile Benveniste nel suo "Vocabolario delle istituzioni indoeuropee".

Una dialettica che, ovviamente, ha visto e vedrà continui capovolgimenti storici rispetto a chi indossa i panni di padrone e chi quelli di sottomesso, ma che non potrà mai liberarsi e liberarci da se stessa in maniera spontanea e indolore. Il modello dell'autosfruttamento distruttivo sembra essere l'essenza più micidiale e profonda dell'attuale corso storico.

Se questa è l'analisi, qual è la possibile risposta? Oppure, per lo meno, qual è la contromisura più plausibile rispetto al dispiegarsi della dismisura, alle sue molteplici manifestazioni? Il sentiero di mezzo del pragmatismo a breve termine, la composizione delle forze esistenti, il contenimento dei conflitti, la gestione tecnica e burocratica dell'esistente: questa sembra la formula privilegiata, ovunque. E spesso, occorre ammetterlo, vista la temperie del momento che viviamo, con il ritorno di massimalismi isterici di varia fattura e semplificazioni imperdonabili della complessità degli eventi, costituisce un cammino apprezzabile. Una forma di pacata saggezza pragmatica, di umiltà da rispettare.

Ma appare anche al contempo caratterizzata da un'ingenuità sconcertante, perché priva di prospettive di ampio respiro, di un progetto culturale più ambizioso, di un'etica della dignità che venga finalmente sottratta alle zone del privilegio sociale. E soprattutto perché incapace di penetrare a fondo, forse, nel panorama di catastrofi collettive che si sta profilando. Insomma, perché ammorbata dalla stessa incapacità di guardare fuori da se stessa che caratterizza tutta la nostra epoca, lavorando empiricamente sugli effetti, mentre ignora o evita di affrontare le cause strutturali soggiacenti.


Wort, das zu lang bei der Welt war, rolle
hinaus -

Mit dem Aug eines Kindes, mit
dem Aug seiner Mutter
find ich mein zweites,
mein erstes
Fenster.


Parola, che troppo a lungo eri presso il mondo, rotola
fuori -

Con l'occhio di un bambino, con
l'occhio di sua madre
io trovo la mia seconda,
la mia prima
finestra.

Così termina la poesia di Paul Celan, risolvendo in maniera problematica quello sguardo contratto e privo di splendore da cui aveva preso le mosse.

La parola, il sapere, le pratiche abituate a convivere in maniera esclusiva con il mondo, incapaci di scarto rispetto ad esso e di pathos della distanza, incapaci di fare "tre passi indietro" - come suggeriva Adorno in un memorabile aforisma di "Minima moralia" - non ci daranno mai uno sguardo che non sia irrimediabilmente funzionale alla macchina sociale da cui è scaturito. Uno sguardo che non sia completamente irretito e compromesso con la prospettiva angusta della sua storicità, soprattutto quando questa storicità propone se stessa come terminale e definitiva.

Questa parola usurata e "mondana" necessita di ritrovare una finestra, di frequentare un fuori, di ossigenarsi altrove, di spalancare il proprio sguardo sulle cose come se fosse sempre il primo sguardo che si posa su di esse. L'effetto può essere sconcertante, paralizzante. Oppure si può scoprire, con sobria malinconia, che non serve a nulla. Ma chi lo dice che si debba sempre servire, con il nostro sapere, con il nostro percepire, con il nostro corpo e con il nostro tempo? E chi dice comunque che servire sia un'attività plasmata di necessità e sempre sul modello dello schiavo, dell'assoggettamento alienato e utilitaristico?

Inseguendo le tracce di un'etimologia probabilmente erronea ma illuminante del termine servo, latino servus, lo scopriremmo collegato alla radice primitiva indoeuropea swer- "osservare", riscontrabile anche nell'avestico harva, "che sorveglia, che protegge", e nel greco horân, "guardare, considerare". Dentro le vicende stesse della storia di una parola ci si può imbattere nello spiraglio insospettato che ne capovolge il senso, affrancandola dalla gabbia rigida e chiusa cui sembrava condannata.

Dalla finestra aperta in extremis da Paul Celan, non schiava di nessun circo mondano, ma impegnata umilmente a servire la propria vocazione cognitiva, si può contemplare il sentiero di mezzo. Che non è soltanto un'espressione figurata per designare la prudenza intellettuale e pragmatica, spesso opinabile, ma anche una formula per indicare la Via Lattea.

«Sono un uomo con una voglia tremenda di sapere. Sin dall'infanzia...», così scriveva Vladimir Majakovskij in uno dei suoi poemi più visionari, in cui si tengono assieme mirabilmente il vigore entusiasta della partecipazione politica, le sfumature più delicate della vita affettiva, l'intensa passione per l'astronomia, come apertura di nuove frontiere dell'immaginario e della percezione.

Tramite la figura di Majakovskij intendo ricordare le vicissitudini circolari di un'altra parola abusata dalla modernità: rivoluzione. La Russia è stata protagonista del più ambizioso e fallimentare rivolgimento politico del XX secolo. Di un progetto tanto luminoso nelle premesse astratte, quanto disastroso nei suoi effetti. Di una perversione immane della speranza in disperazione e morte. Ma rivoluzione è una parola antica. Non va dimenticata o rimossa, perché un modo del suo manifestarsi si è dimostrato nefando. Rivoluzione è la danza ellittica del pianeta terra intorno al grande incendio che chiamiamo sole. La nostra vita esiste soltanto in virtù della geometria precisa e fragile di questa rivoluzione. A sua volta affogata nell'immane spirale della Via Lattea. Quella striscia biancastra di cento miliardi di stelle che ci contiene e che possiamo osservare sopra le nostre teste quando la notte è sgombra di nuvole e libera dall'inquinamento atmosferico delle metropoli. Il cielo sconfinato che ci ostiniamo a non vedere, a non sentire.

Sospetto e mi auguro, in qualche modo, di essere andato fuori tema.

Federico Nobili

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[ Speech - October 27 ]

First of all, I like to remind you that I tried to deal with some of the complex items of this conference in a paper whose title is "Slavery of circle".

So, now I'm just going to suggest you some may be paradoxical and general ideas.
With regard to titles, "Re-thinking Modernity" is a very ambitious and demanding one. I mean it compels us to stress the fact that thought should try to be even something else than just a description of the so called reality through given concepts and patterns. I mean that thought should be able to surprise us, like a violent blow coming from outside. It should be able to open new doors of perception, non only to construct an aseptic, symmetrical and optical view of problems.

We are used to think just with a part of our mind, and not with the whole body. We are used to think as if time, devouring time, was something external to us.
For example, we can go on analyzing economical changes in our age, but there won't be any considerable philosophical insight, if we are just bounded to the actual behaviors of social actors, if we are just suggesting theoretical and pragmatical proposals within the logic of market society.

It's not only a methodological point of view. It's something like a fire burning us from inside and from outside, a blazing fire we don't want to look at, we do fear to look at.

We always pretend we've something more important to do, but in the meanwhile the fire is destroying everything, just like it happened in these hours in Moscow.
I would like to ask you: why is man so deeply possessed by this fever of making, this fever of producing, this fever of consuming? The essence of the animal called man, the essence of civilization seems to be - or perhaps to have become - the impossibility to stop.

Do we realize we're going to be swallowed up by all these "unlimited expansion machines" we have built? Do you believe that this is the only real and possible model of behaving, of feeling, of reflecting?
So, what about if I do affirm that economy is nowadays a blind spot of reason, of course far better than religious fundamentalism, but with the same logic inside its own core? All of its sophisticated and, in a way, successful strategies are clear expressions of a widespread and dramatical inability to think, of a suicidal vector of our time.

The calculating and specialistic model of rationality, claiming to control and forecast individual and social dynamics, has begun to show tragically its failure, above all from 1989.

I'm not talking with a sort of anti-globalization mood. Just let's think about critical and worried positions such as those expressed by eminent representatives of financial milieu itself: George Soros and John Stiglitz, for instance...
The new dreadful expression "to explode oneself" does not concern only terrorism. I'm afraid it's going to become more and more a precise synthesis of the main trend of the present time.

So, why don't we try to put the word economy beside the word astronomy?
Modernity also begins with the amazing scientific revolution that revealed us an expanding, not-anthropocentric and still unexplained universe, in which we play such a brief, peripheral and furious game. Are we running amok, like all these billions of cold and burning galaxies? It's non simply a metaphor, not simply a poetical image: it's perhaps the only thing that's real.

I want to put a question to all of us: why didn't this extraordinary new perception of our frail position in the universe change anything at all in our life?

Federico Nobili



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