VIAGGIO INVOLONTARIO

Frammenti dal libro
a cura di Benedetto Gusano



Questo libro è stato stampato
per la quarta edizione di
Comunicare fa male
Fivizzano - luglio e agosto 1999



Claudia Arrighi

NUMERO UNO, DUE, TRE...



#1

L'autobus è affollato. Nella ferina caccia al posto una donna grassoccia col suo bambino paffuto sono stati risparmiati, stranamente, e riescono a sedere tranquilli, uno accanto all'altro. Il bambino prende sulle ginocchia la sua enorme cartella e inizia a rovistare, fino a tirar fuori un quaderno dai colori stressanti. Comincia a parlare deciso ma a bassa voce di meraviglie ascoltate, di fantastici disegni, di esaltanti novità sempiterne riguardo la clorofilla. E facendo tutto questo tira timidamente la manica della madre, la quale, aggiustando puntigliosamente i ciuffi biondi del bambino, emette a intervalli regolari un nitido "Sì, sì..."
Il bambino continua a parlare e mostrare, tentando con movimenti impercettibili di posizionare l'esempio della sua curata calligrafia nella traiettoria degli occhi della madre, dando l'impressione di mancarla solo per i sobbalzi procurati dalla strada dissestata. Intanto la madre è passata alla cura dei propri capelli, tenuti indietro da un enorme fermaglio dai colori fanciulleschi.
Il bambino continua a parlare, quasi sottovoce, e il suo racconto diventa un'incolore cantilena, che accompagna il lento ma costante martellio metallico di biglietti obliterati.
Il bambino guarda una ragazza distante che gli sorride, senza ricambiare; ha interrotto la sua cantilena e solo le gambe penzolanti nel vuoto, piano piano, continuano a dondolare.


#2

La signora col viso di grinze ha gli occhi di un celeste annacquato. L'aeroporto di Stansted è bianco, luminoso, e la navetta che porta ai cancelli dall'11 al 24 scivola silenziosa, prima uscendo sotto un cielo basso e veloce, poi infilandosi in un tunnel scuro ma rassicurante.
La signora tiene stretta da un lato la sua borsa, dall'altra il bordo del sedile, guadagnandosi una posizione stabile, consona al suo collo signorile e al volto magro e allungato, che doveva aver avuto tratti decisi.
La navetta sta per fermarsi di fronte alle scale mobili che portano ai cancelli dall'11 al 24, come ricorda suadente la voce non umana che sembra provenire da ovunque. Alla morbida frenata alcune ciocche di capelli candidi si muovono scomposte sulla testa non curata della signora dal volto di grinze.
I soffitti all'aeroporto di Stansted sono alti, leggeri, le pareti trasparenti, l'atmosfera rilassante e così moderna; ma gli occhi della signora non sono così moderni, e lo sguardo, benché fisso nel vuoto, appare malfermo, nel suo celeste annacquato.


#3

È una di quelle giornate in cui non si vorrebbe stare in treno, tantomeno alle due di pomeriggio. Gli occhi si buttano fuori dal finestrino per non sapere che fare, più che per curiosità di esaminare un percorso fin troppo noto. Là fuori non c'è niente da guardare, il cielo è di quelli che rammenta l'appiccicosità del sudore, e quelle enormi case inscatolatrici di vite diverse sono le stesse di sempre. Il treno passa accanto a tutte loro, non abbastanza velocemente. Le tende dei terrazzi sono rigidamente tutte uguali su ognuna di quelle costruzioni; ogni dettaglio, peraltro, è espressione dell'imperativo condominiale.
Fra scatola e scatola i ritagli di verde sono l'obbligo al respiro, piegati in ondulazioni innaturali, in modo che ogni condominio abbia il suo surrogato di collinetta, in modo che tutto debba essere come deve.
In mezzo a questi spazi così regimentati si apre all'improvviso un vuoto di polveroso biancore, e sul polveroso biancore la luce si riflette rendendo il caldo insopportabile.
Carriole, secchi, barili, pale, monti di sabbia, mostruosi semoventi al momento immobili, elementi del costruire, al momento interrotto. Anche un giovane, là in mezzo, con la sua canottiera e i pantaloni larghi e sporchi rammenta una fatica fatta o da fare, secondo il programma.
Man mano che il treno si avvicina si distinguono dell'uomo i capelli lunghi, raccolti, e le scarpe pesanti, quelle che ci vogliono per lavorare. Ma non lavora, quell'uomo, sta immobile, là in mezzo a quella chiazza biancastra, con la testa piegata in avanti. Prima che la vista del finestrino passi ad altro.



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