L'irreale intatto

Lettera aperta agli autori di Scrivere sul fronte occidentale
in merito alle recensioni scomposte e irritate del libro
da parte di gran parte della stampa italiana

Triste, in senso eminentemente spinoziano, è questa non volontà (o dovrei optare, piuttosto, per un'ormai endemica incapacità?) di argomentare, analizzare, pensare. Il teatrino mediatico e politico è diventato impagabile magister vitae, con la sua virulenza, incongruità, menzogna, impudenza. Con la differenza, non irrilevante, che lì, almeno, sotto la brutalità dello spettacolo e del fiato, si muovono masse dure e pesanti di realtà, di costruzione e distruzione.

Difficile talvolta sottrarsi al meccanismo pavloviano, reattivo e salivare, della risposta, della polemica, della simmetria da ristabilire, per sempre perduta, perdente. Attaccati, che cosa si può fare? Si contrattacca. Perché il silenzio non dia l'impressione remissiva di un cedere le armi, di un accondiscendere, di un evitare la "fecondità" e il "rispetto" dello scontro. Spontaneità ormonale, opaca, ma senza il coraggio deittico dell'opacità stessa: ecco, sì, sono io, senza altre istanze da accampare, ideologiche, sociali, assiologiche, paraestetiche, dietro cui nascondersi, difesi da bastioni di ipocrita oggettività, ovvietà, buon senso, normalità...

La triviale logica binaria e sportiva pervade le forme elementari del comunicare, il pensiero, il dialogo, la conversazione, l'analisi critica, affogandole tutte nella dialettica riduttiva degli opposti, che implica, psicologicamente, socialmente, il prevalere necessario di una posizione sull'altra, il rifiuto delle sfumature molteplici che separano ma animano anche dall'interno le singole posizioni stesse, l'inettitudine ad aprire spazi di ascolto disponibili alla mutazione reciproca, all'acquisizione dall'altro di nuovi elementi di conoscenza e sensibilità, piuttosto che il raggiungimento della meta violenta ed esclusiva: la débâcle dell'avversario, la vittoria, la conferma di sé.

Un agonismo scomposto di superfici reciprocamente impermeabili alla razionalità condivisa, almeno nelle sue regole rituali (mi riferisco alle convenzioni di forma, qui, con sincera deferenza) e fondanti: sforzo di consequenzialità, conoscenza e rispetto dei contesti, accordo preventivo su postulati minimi di comprensione lessicale e di correttezza procedurale. Superfici impermeabili anche all'emozione radicale, capace di squassare o per lo meno incrinare identità rigide, con il loro inevitabile bagaglio storico di orizzonti pregiudiziali, ermeticamente arroccate nella paura e nella vanità di perdere privilegi, e inclini invece a cedere alla lusinghe scivolose di un'emotività meramente adrenalinica, oppositiva, gregaria.

Ma, si sa, non esiste lo scrivere neutro, affermava Thomas Sankara, che certo non era scrittore di professione e neppure intellettuale, critico o artista, ma ben conobbe sulla propria pelle (nera) le menzogne della cultura universalista e coloniale, i tradimenti dell'illuminismo (genitivo oggettivo e a volte anche soggettivo), le secche del pensare capziosamente argomentativo, il gelido intelletto che calcola in base alle ragioni della forza.

Ferma restando questa consapevolezza stuprata, questa maculata concezione del linguaggio, la dignità minima e ammirevole della nostra tradizione cosiddetta occidentale si dovrebbe identificare pur sempre con la cogenza etica e teoretica dei modi del comunicare.

Da sette anni organizzo con il Gruppo Eliogabalo un'iniziativa anomala che si intitola appunto Comunicare fa male. E anche questa recente esperienza editoriale sembra dar conferma alla cifra dolente che avevamo colto, in un momento storico di presunta fluidità e leggerezza, trasparenze e disincanti, ironia e cinismo. Più e più volte siamo stati sbeffeggiati, fraintesi, attaccati, addirittura diffidati, per l'uso di quella formula. Anche derubati, con certificati di verifica del furto, in una progressiva deriva edulcorante, fino all'apoteosi del ribaltamento: una festa nazionale dell'Unità di due o tre anni fa si intitolava "ComuIcare fa bene"...

De quoi souffres-tu?
De l'irréel intact dans le réel dévasté.


Così si legge in un libro da poco ristampato e recensito con meritoria attenzione proprio da Alias (che si è particolarmente impegnato in una non-recensione ignobile, reattiva e ingiuriosa di Scrivere sul fronte occidentale).

Con la stessa ottusa coazione enfatica che richiedeva un tempo atti e prove di fedeltà contenutistica rispetto a una petizione di principio realista e ideologica, si pretende oggi, neppure tanto implicitamente o cortesemente, la cura esclusiva delle forme semiotiche, narrative, ritmiche, in un quadro di microvarianti rispetto a un codice di sconfortante pochezza e insincerità. Lo smalto del nulla, insomma.

Confondere la presunzione di verità, che caratterizzerebbe una compagine del resto eterogenea e contraddittoria come quella che confluisce sotto la copertina del volume Feltrinelli, con la fame la sete il trauma la gioia la paura la distruzione l'orrore l'utopia la distanza la stupefazione della realtà, della realtà irriducibile al concetto e all'immagine, della realtà che fa attrito con la lingua e la scrittura, con i corpi e con gli affetti, operare questa capziosa o avventata confusione, dicevo, qualunque sia la sua intenzione, la sua fuga, la sua ostinazione, è gesto da minus habens, non fosse (anche) malafede strategica e protezionista.

L'irreale delle buone maniere o della decostruzione, dell'onirico blando o della bellettristica, della rete intertestuale ed esclusiva, dell'ermeneutica indefinita o dell'aura, irreale che si ostina a mantenere, magari addirittura con orgoglio, la presunzione della sua propria separatezza, dell'impegnato disimpegno, della vacuità autoreferenziale, questo irreale, non fosse normale, sarebbe sconvolgente. O, maglio detto, proprio in quanto normale, è sconvolgente.

Il pensiero si è sempre occupato dell'inaudita realtà dell'ovvio e della scandalosa ovvietà del reale. Delle forze telluriche in atto anche nel momento di massima grazia e abbandono. Chi sostiene che la scrittura poco o niente si debba mescolare col pensiero, per vocazione genetica e serietà professionale; che il problema è lo stile, quasi lo stile non fosse espressione mediata ma al contempo inequivocabile di pensiero, di corpo, di scelte e di omissioni; chi sostiene questa fatuità, merita soltanto compatimento, disprezzo e sbadiglio.

Non può essere odio, perché l'odio implica l'eccellenza dell'oggetto su cui si riversa tutto questa energia, tutta questa attenzione. E il tempo è breve, no si può dissipare con tanta disinvoltura. È triste, credo, trovarsi invischiati in una rete di conflitti in cui chi di volta in volta assume o crede di assumere il ruolo di nemico (salvo rifiutare con vezzo perbenistico e fariseo, almeno in pubblico, questa qualifica, arrivando candidamente ad allungarci la mano dopo aver sputato fiele), non merita il nostro rispetto più sincero e profondo. L'eccellenza del nemico, perché esistono di volta in volta i nemici, è stimolo, invito all'impegno, a tenere alta la guardia, a lavorare sodo, a non vivere di rendita, a non seguire flussi di inerzia.

Non tutti gli animali riescono col buco, insomma... e dire che non son ciambelle, gli animali umani, è magra, misera consolazione. I buchi servono, servono anche per parlare e pensare. Tapparli in anticipo, ostruirli, difenderli e basta, significa concedersi l'opinabile lusso di "serrare la lingua tra i denti", pagando troppo in anticipo il debito con la morte, come avrebbe urlato Vladimir Majakovskij (già, un futurista, un violento, un vitalista, un suicida comunista... ma allora avevamo ragione, il fetore era proprio quello!).

Lo vadano a raccontare a Giordano Bruno, per uscire di micragnosa attualità, che l'incendio del reale non è questione di stile, di parola, di pensiero, di scrittura, di integrità complessa eppure non compartimentale della persona!

Il cretinismo specializzato e settoriale è la più efficace e comoda apologetica dell'esistente, che non tarda mai ad attribuire, a chi tenta di sfuggirne, statuti di eclettismo pretenzioso o ad esibire didascalie di patetica competenza pseudoerudita, quasi a ristabilire le dovute gerarchie di competenza e ruolo.

Ma, aggiungo, sono anche ben poco interessato, per coltivata e faticosa eccentricità rispetto al mondo editoriale artistico e culturale (mi riferisco alla mia sopravvivenza materiale e al mio eventuale, correlato bisogno di riconoscimento in un ambito collettivo), al possibile riverbero che le mie affermazioni, il mio stile di vita, possono avere sulle coscienze (?) di operatori deputati al ruolo per lo più parassitario di ordine pubblico nell'ambito estetico, creativo, culturale. E non riesco più a indignarmi granché, neppure, alla considerazione del ruolo di potere e quindi di correlata scarsa trasparenza di questi ambienti e dei comportamenti che di volta in volta vengono adottati, promossi, difesi. Come stupirsi di coloro che non si stimano, e che quindi non ci riguardano, se non per la congiuntura sociale che ci vede condividere in apparenza un territorio, un codice, un insieme significante? Come stupirsi di essere in pochi, sempre più in pochi, non certo a possedere una qualunque verità comune o accomunante, ma per lo meno una tenace volontà di ascolto, di oltrepassamento delle nostre stesse abitudini percettive, di curiosità intellettuale inesauribile e critica? Sulla spinta di quale residuo di naïveté si può continuare a pretendere, nell'implicito dello stupore reiterato, l'adesione a principi minimi di civiltà, proprio in mezzo allo scempio cinico istituzionalizzato, e proprio da parte dei soggetti più fragili nonché, dopotutto, ininfluenti, se si fanno le proporzione col destino dei più su questa terra? Non voglio negare o sminuire il ruolo e la qualità del potere culturale in questione, ma mi pare che siano ben altre, e altrove, le macchine da scardinare o rivitalizzare, anche al fine di respirare nuovo ossigeno.

Insomma, se non voglio rischiare di nutrire in maniera cronica e indirettamente servile la mia cangiante per quanto ostinata identità sul metro vago, pretenzioso e astrattamente universalistico dell'altrui capacità o incapacità di capirmi, dell'altrui volontà o rifiuto di accogliermi, allora mi devo obbligare a cercare complici diversi, luoghi inauditi, vacuoli di silenzio rispetto al chiasso mondano, forme di distanza intese non come zone di sicurezza, ma come campi di tensione, avrebbe detto Adorno.
Che poi forse è, in potenza, il vero valore aggiunto, non meramente verbale e cartaceo, dell'operazione che Dario Voltolini e Antonio Moresco hanno innescato e curato. Un'occasione di incontro, visto che in vita di questo abbiamo facoltà. Uno stimolo per nutrirsi di altro da sé, fuori dagli steccati e dalle industrie dell'allevamento omologante, siano esse potentemente mediatiche e multinazionali o snobisticamente elitarie ed artigianali (recente apprezzabile e sincera autodefinizione de il manifesto: Valentino Parlato docet).

Per il resto, sempre fuori dal pericolo avvelenato del risentimento e del rispecchiamento degradante, occorre approntare strumenti e luoghi di potere altro, inassimilato. Quest'ultima considerazione la lascio sospesa, apparentemente sibillina e nebulosa, perché aprirebbe un altro capitolo, ben più impegnativo e complesso. Mi riservo eventualmente di approfondirla e condividerla a partire dalle occasioni di incontro non virtuale.

Visto che non posso cambiare patria, cambiamo argomento...

E non mi si replichi, per favore, che la patria non esiste, che è costruzione simbolica, che comunque ce ne possiamo andare eccetera eccetera: questa pedanteria lasciamola ai recensori irritati. Dotati sempre di spontanea ironia e supponenza, ma totalmente inaccessibili allo humour spiazzato.
Ma anche di questo, un'altra volta.

...

Perdonate la lunghezza. Ma la logica della battuta mi pareva impertinente, scorretta e incongrua con le mie premesse. Preferivo correre il rischio del tedio, della vischiosa indifferenza o della caduta di attenzione, piuttosto che abbandonarmi alla perentorietà estetizzante o cameratesca di un'opinione contratta, gettata nel torneo e refrattaria ad altro da sé, priva di sviluppo potenziale e problematico.

La sofferenza di fronte all'irreale intatto nel reale devastato, l'irreale ideologico così come quello introiettato, quello che ci fa ripetere: nulla cambia, tutto già detto, tutto già pateticamente esperito; quella sofferenza può e deve aiutarci a ribaltare di segno, sempre spinoziamente, la tristezza di cui all'incipit di questo mio intervento. C'è una gioia, assolutamente non consolatoria né addomesticata, direi tragica non fossi a rischio di enfasi e malinteso, rispetto all'inesauribile irruzione destabilizzante di realtà, irruzione che non necessitava certo, per quanto mi riguarda, del caos degli eventi più recenti, ma che vive più umilmente di un rumore e di un'ascesi quotidiana, di una sorta di paradossale sorvegliatezza in grado di potenziare i nostri estremi. Una gioia fragile, effimera, difficile da custodire. Ribaltare i segni negativi in opportunità di crescita e trasformazione, in maggiore capacità di fare di essere di sentire, è quel poco che ci resta, degno.

Perdonate ancora la dimensione del mio delirio.

Un caro saluto a tutti.

Federico Nobili



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