VIAGGIO INVOLONTARIO

Frammenti dal libro
a cura di Benedetto Gusano



Questo libro è stato stampato
per la quarta edizione di
Comunicare fa male
Fivizzano - luglio e agosto 1999



Letizia Corsini

SMERIGLIO




Il suono acutissimo di uno smeriglio penetrò la stanza assolata e tutto parve oscurarsi un istante per poi ricomporsi e spiccare più esatto, tagliente.
Ecco, ecco, pensò Veronica, e si piantò nel centro di quel calore scintillante, seria, respiro corto e gola inclinata da piccola belva pronta allo scatto. Non ancora, pregò, è così presto, il sole è ancora altissimo, c'è ancora molto tempo.

Ricordava i primi pensieri.

La luce del mattino. Per miracolo del risveglio, qui ora mi trovo. La pelle fluida dei piedi fruga cieca nel raso fluido, l'aria si scioglie nel sangue e scorre.
In un turbinare di lenzuola si era alzata dal letto, allegra.
Mentre la fiamma azzurrina del gas bolliva l'acqua nella caffettiera aveva cambiato l'acqua al giglio bianco, fiammante e morituro nel vaso lungo.

Poi lavatura piatti con sottofondo musicale latino-americano, sigaretta stretta fra le labbra da Vera Fumatrice, ancheggiando una rumba in camiciola bianca e cinesine. L'occhio di vetro era stato molto contento della spuma bianca sui piatti blu cobalto, dei capelli spettinati ad arte, del braccialetto guatemalteco un po' stinto, delle tracce di ombretto verde sugli occhi liquidi di sonno, della camicia da notte sgualcitella sexy. Una lágrima caiò en la arena, en la arena caiò mi lágrima, un nitido segmento di routine diurna con rumba nostalgica e copione mattutino, di tutti il preferito. Fuori il mondo frenetico e lei nella sua casa insulare bellissima, con i rumori della strada dalle finestre aperte.
Proprio allora, a quel pensiero, nella laguna della gioia elementare era comparsa una sottile increspatura. Abilmente elusa, con i consueti strumenti: concentrarsi sul profumo del caffè, prego. Questa tazzina autentica da bar dai bordi spessi e scivolosi ha conosciuto molte bocche. Questo portacenere di bachelite flotta sulla plastica di stuoia cangiante, color mercurio e giallo ocra, e, spostandosi, amaranto scuro, e forse, pensò, green-arsenic smeared on an egg-white cloth, L'Art, in fondo il mondo non è che un museo sconfinato. Alzo la musica per esaltare il tutto, così perfetto, tanto i vicini sono tutti onestamente al lavoro mentre per me è la consueta vacanza, la mia vacua danza, sì.
Seconda sottile increspatura registrata con consueto consumato distacco. Subito doccia? No, prima bucato. Omocromatico, celeste-bluastro, generante risciacqui colore dell'indaco.
Detersivo ecologico, di un bel verde innaturale, design del recipiente bello, nel suo merceologico appeal. Spostando appena la paglietta di ferro entro la cornice fornita dalla ringhiera ottenne una fugace natura morta pop.

La lavatrice aveva scattato subito, con commovente ubbidienza, cominciando a vibrare nell'immoto balcone sospeso nel vuoto a cinque piani di altezza. Veronica si afferrò alla ringhiera. Lo scrosciare dell'acqua si mescolava adesso al tamburo polinesiano di là dalle pareti. Il ferro della ringhiera ne propagava, infinitesimo, l'unisono.
Nelle dita sentì la simpatia minerale delle ossa e del metallo; in entrambi sentì il tepore minerale del sole, disceso dai cieli remoti con regale magnitudo fino a lei, sospesa sul trave di cemento sospeso su una prospettiva sbieca di fronde di ippocastano, tetti, una croce obliqua di chiesa gialla, un castello di pietra in lontananza.
Al troppo sospeso paesaggio voltò le spalle, cercando un suono. C'era la catenina del tappo che oscillava appena sui mattoni, e poi la lavatrice che risciacquava sensuale e sommessa.

Si distolse con fatica dall'ipnotico oblò dove i panni vorticavano.

Se il giorno è nato, ammise, se il tempo scorre, non potrò che assecondarlo con le azioni più degne.
Doccia lustrale al profumo di sandalo.
Cambio lenzuola, nere con federe arancio oppure tutto verde verdissimo acido?

L'improvviso silenzio dopo la fine del disco.

Veronica voltò subito lo sguardo verso l'impianto stereofonico che la risucchiò in una maestria di manopole e tasti. Un flusso era necessario. Reclamava brani scelti in successione esatta, contiguità narrativa o ritmica o tonale, in una catena potenzialmente infinita. Brani di suoni dissepolti da scaffali e smembrati e rimembrati e sparsi nel cuore elettronico del mixer e, per analogia, nel cuore di lei onnipotente, ferma al crocicchio degli universi.
L'euforia si era trasformata impercettibilmente in ansia. Non trovava il ritmo giusto per concludere il giro. Non riusciva proprio a trovare quel brano con quel crescendo parossistico, saranno gli Z'ev, non sono gli Z'ev, saranno gli Zillatron, oppure.

Strappo.

Si vide inginocchiata scomodamente fra nastri e dischi e custodie vuote.

Alzò cupamente gli occhi verso l'orologio che segnava le due.
Un suono acuto di smeriglio bucava l'aria, ripetitivo e struggente.
Veronica vide che tutto intorno era mutato, sì, era mutato di colpo.
Ecco.

Il colore del giorno era mutato. Il sole gonfio dilagava nella stanza e la luce non risparmiava neppure un angolo. Tutto splendeva, impietoso e vasto. Qualcosa si era fermato.
Senti, senti, senti. Precipita piano.
Trovava il pomeriggio piuttosto crudele, col suo sguardo senza infingimenti, la sua luce cruda di gioiello. Tentò di ricapitolare. Aveva certamente sbagliato qualche passaggio. Desiderò tornare indietro.
Così, dal niente, uno scivolare avventato.
Veronica si alzò pesantemente nel cono di calore. Ora l'occhio stava altissimo come volo d'aquila. La stanza era molto astratta e contundente. Lo smeriglio strideva a intervalli.
Tu mi aspettavi come un appuntamento aspettavi lo schianto nella nenia del giorno.
Le voci erano sempre così lapidarie. Lei lo sapeva che sgusciavano dagli anfratti delle cose, le cose intorno. Era un barbaro meccanismo.
Un'eco le precedeva, un'eco le seguiva, infatti risuonavano fra le pareti. Tutto era maestoso, troppo maestoso.
Credevi fosse la morte e invece è la vita.
Istintivamente si sfilò le cinesine con un doppio calcio, rimanendo a piedi nudi sul pavimento fresco. Sentì l'esistere del fresco, l'esistere della pelle e l'esistere del pavimento come una sequenza di dati universali. Inoltre, lo smalto rosa corallo spiccava lussuosamente contro le mattonelle nere e rapì il suo sguardo per un lunghissimo istante. Nelle onde di colore tutte le forme si annichilivano, sprofondavano, riemergevano turgide e compatte, in gloria.
Le voci risuonavano sulle pareti. Alcune indugiavano per qualche secondo, sostenute dalle molecole d'aria calda. Altre si sfarinavano intorno come atomi di luce, perdute per sempre.
L'eccessiva bellezza smagliante. delle cose il manto pellucido. il sorriso di Afrodite terribile.
Giungendo al punto di saturazione i sensi esplodevano in figure, che un qualche centro cerebrale convertiva in collane di parole per coronarne la morte.
Caduta ogni logica, il fascino decadente delle macerie verbali e logiche, lo senti sfrigolare nei pensieri, gonfiarli?
Dall'alto, l'occhio vitreo seguitava a filmarla. La vide aggirarsi in pochi metri quadrati con passi diversi, bloccarsi in posture scomode, in attesa, precipitarsi illuminata verso un libro, non trovarlo, prenderne a caso un altro, inquieta sfogliarlo, con violenza chiuderlo, spolverare con cura l'intero scaffale, sospirare, dirigersi allo specchio, raccogliersi i capelli in un ciuffo sciamanico, accennare un passo di danza primitiva, gettarsi affranta sul letto, determinata rialzarsi, sbuffare, di nuovo trascinarsi nello spazio denso, accasciarsi su una sedia qualsiasi, dondolandosi. Bruscamente, l'occhio era disceso a livello del suolo.

Mi servirebbe una radura, confidò Veronica alla cara liscia mattonella, piegandosi a valva sulla seggiola, e chiuse le mani sugli occhi. Potrei restare qui per sempre, pensò accoccolandosi nello spazio dietro la fronte. Dietro la fronte c'era un altare di vetro sormontato da un guscio vuoto. Un ventaglio di luce bianca si apriva nel cavo buio, e onde di luce pura sprigionavano forme cangianti, idoli multiformi: un bambino azzurro: la pioggia incessante: una folla amorfa e variopinta: il campanello sbeccato di un portone: il campanello che si avvicinava: il campanello che suonava con voce di smeriglio.
Veronica riaprì subito gli occhi, alzandosi in piedi. Scagliò un anatema sul vortice bellissimo, annidato in lei dalla nascita alla morte, sempre pronto a sollevare la sua coda variegata. Taci serpentina ruota, scimmia resa folle da veleno di scorpione, stramazza & muori.
ssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssss
Soffiò via la giostra di immagini con un sibilo di cobra. Faticosamente estrasse la coscienza dal mondo dei pensieri catapultandola all'esterno.
L'occhio continuava a filmare, indifferente. Dal suo globo di vetro spirava un'ironia gelida e protettiva che in quei momenti di tensione suprema la tratteneva sull'orlo di un qualcosa nel quale si sarebbe piuttosto lanciata, lanciata...
L'occhio vitreo è la tua salvezza, ripeteva una voce sussiegosa. Tu sempre brami conservazione, io non cerco salvezza, disse Veronica, cerco un culmine.
Ma le voci dicevano: Spazio fratto tempo. Movimento. Dal centro geografico del corpo lungo il gioco dell'esistenza. La senti la freccia, la freccia che scocca? Veronica ripose: io le frecce me le sento passare attraverso, dal fuori al dentro, dove si perdono in un buio.
Attenzione, lo show tocca note patetiche. L'intero pubblico si commuoverà.

Mentre qualcosa in lei si rompeva dolcemente, le affiorarono alle labbra dei versi vittoriani. Li pronunciò ad alta voce come una preghiera. Lontano da me stessa mi sento e nel pensiero volo per strani sentieri, all'ascolto di un segno: e ancora un qualche cuore si strugge per una qualche anima, e questi suoni, che mormorano insieme senza posa, il mio spirito è contento di portare.
Cullata dall'eco della voce si lasciò naufragare nel flutto vischioso della commozione. Sono giunta fin qui solo per commuovermi, pensò, tragica.
Proserpina infelice.
Siamo tutti qui per commuoverci, dissero in coro le voci, coraggio, dacci il tuo melodramma quotidiano.



.................................



Dopo aver pianto lacrime, si asciugò lacrime, Veronica, e si sentì salire dentro un fiume di lucida calma cinica (questa battuta del copione non le dispiaceva del tutto, peccato durava poco e infatti), poi, rabbiosamente, pensò: sensibilità, cultura, intelligenza. Palle. Desiderò essere un'aborigena. Sarebbe andata nel bosco a conversare con gli spiriti. Invece, disse all'occhio, volubilmente si aggirava ogni giorno fra relitti di pensiero, impotente, in attesa di un nuovo risucchio. Ma preferiva la gravità tremenda del risucchio all'evanescenza incolume della superficie, disse.
Si imbatté in una delle palline di gomma trasparente che da anni lasciava vagare per il pavimento. Si rinfilò le cinesine e diede un calcio alla pallina, che rotolò sotto un mobile. Trascinò poi lo sguardo per tutta la stanza-flipper nella quale trascorreva di fatto quasi tutte le ventiquattrore.
Vide ovunque le cose, i contorni netti delle cose che, ricolme di se stesse, riposavano, nel loro sonno di icone. Lei le amava, amava, non ricambiata, la loro quiete impersonale e remota. Dove riversare il suo amore di creatura cosiddetta animata? Ruotò lo sguardo a trecentossessanta gradi in cerca di una zona concava accogliente, ma tutto sembrava convesso. Ogni singolo oggetto generava una forza centrifuga. La superficie delle cose era traboccante e tesa come la pelle di unico frutto maturo, e lei le scivolava addosso, respinta lontano lontano, chissàdove.
Non c'è un dove né un altrove. C'è il non-luogo accecante del sempresempre.

Qualcosa in lei si era definitivamente rotto. Il giorno precipitava, sì.
Non trovò di meglio che inginocchiarsi al cospetto di quanto intorno la sovrastava. Risparmiatemi mi pento, voglio un giorno normale. Voglio essere come la Gallina che non va né alla scuola né alla dottrina. Accetto qualsiasi problema concreto contingente tangibile numerabile. Un'emergenza, un cataclisma, uno schiaffo nei denti.

Squillò il telefono.
Veronica ne registrò il suono con una strana miscela di sollievo e fastidio sulla quale non mancò di meditare. Chi è, cosa vuole, cosa devo fare, non rispondo.
Poi la seduzione del trillo e la curiosità vinsero. Con voce melodiosa da centralinista rispose.
Pronto?
Una voce acerba, Dominique. Mon indéchiffrable sex-machine.
Occhi grandi e distanti e il simbolo matematico dell'irrazionale tatuato sul polso. Di professione tecnico del suono annoiato, alias gigoló nel tempo libero, per lucro e per gioco e per altre circostanze.
Resti con me stanotte? O hai già un rendez-vous?
Trascorreva con lui isole di armonia amniotica, rotta da esplosioni di alta pornografia patinata e subito ricomposta. Un mutuo accorato non darsi, molta straniata dolcezza, nessun dramma.
Faccio un passo fra un'ora.
Di colpo quel loro incontro le parve già avvenuto. Dall'interno del non-luogo-risucchio ne vedeva la fioca pantomima. Non puoi raggiungermi, disse fra sé. Nel non-luogo era vorticosa e sola, ora e sempre.
Declinò l'invito con ferma cortesia. Purtroppo stasera no, ho proprio da fare, scusami. Sdeng, cornetta giù, senza rimpianti.
Risquillò il telefono. La invitavano a una cena. Si vide galleggiare fra cibi e discorsi.
Declinò l'invito con ferma cortesia. Purtroppo stasera no, ho un altro impegno, salutami tutti quanti.

La casa di nuovo silenziosa, la collisione col mondo esterno evitata con sapienza. Gli augusti appelli della vita, disse una voce tra le mille. Pericolo scongiurato, capitano, siamo di nuovo soli nell'immensità dello spazio, destinazione ignota.
Si accese una sigaretta.
Squillò per la terza volta il telefono.
Un po' divertita, succhiando il fumo della sigaretta come fosse ossigeno, Veronica alzò il ricevitore, era Virginia. Come va? Abbastanza bene. Novità? Nessuna. Io invece malissimo.
Ascoltò le confidenze di Virginia con sincera partecipazione. Le diede saggi consigli. Parlò del più e del meno. Combinò una cena cinese per data da destinarsi, si congedò con tono leggero, inventato sul momento.
Brava, sei un supremo groviglio, ma dietro il tuo petto batte un cuore di samurai.
Veronica rise sguaiatamente. Eccomi qua in perfetta solitudine e in compagnia dell'universo tutto intero, le rispose, ruotandosi intorno alle spalle il filo del telefono come un bruno mantello byroniano, il suo mantello da torero argentino sfolgorante di luce porpora e oro. L'occhio edificava scenari e al tempo stesso ne svelava la natura di cartapesta.
Ascoltò le confidenze di Virginia con sincera partecipazione. Le diede saggi consigli. Parlò del più e del meno. Combinò una cena cinese per data da destinarsi, si congedò con tono leggero, inventato sul momento.
Non hai mai smesso di giocare.
Ma se non ricordava nulla del suo passato, precipitato nel ventre ignaro del nulla risucchiante! Rinveniva nel portafoglio numeri telefonici irriconoscibili, appunti stravaganti e piccoli oggetti di vaga provenienza. I giorni, le ore, scorrevano vaghi in caduta libera, il tempo filava velocissimo, senza traccia... Poco le apparteneva, forse il nome, violento infatti, come la sua natura. Veronica l'azzardo, il luccicare del mantello nella pupilla del toro occulta e nera, veronica il sigillo della passione, ancora cruento del sacrificio del dio, come tale spacciato attraverso i secoli.
Non vedi la realtà. Tu trasfiguri ogni cosa.
Non lo faccio apposta.
Falso. È il tuo segreto progetto.

Veronica si vide riflessa nello specchio, scomposta, sul copriletto zebrato, attraversata dai fili del telefono. Dalla cornetta proveniva un tuu-tuu sconsolato e tardivo.
Non uscirai da te stessa. Ricorda Narciso, che si abolì.
Narciso? Io sono Veronica, un fiore azzurro.
Veronica sbrogliò il filo della cornetta, molto, molto lentamente. Fremeva di vita propria nella mano stretta, come un pistillo in primavera.
Sì. Forzo gli eventi che non accadono, mento la verità che non so, lucidamente persisto nel mio errore, nel mio orrore, rettificava, piegandosi in una profonda riverenza al vasto pubblico. È l'innato orgoglio luciferino. Andrò fino in fondo, chissàdove. Ma voglio un magma incandescente, se lo dico si raffredda. Voi siete troppo tiepidi. Non ho niente da dire.
Brava, stai quasi argomentando. Continua, il vento ti ascolta.
Antipatica, disse Veronica, parlava con la pancia alla cornetta vuota, non mi interessa argomentare, articolare tutto questo in qualcosa di umano? peccato, non sono umana, peccato, non appartengo a quella stirpe. Sono come la sabbia, sono come il vetro. Prego, lasciatemi titanicamente sola coi miei fantasmi. Prego, risparmiatemi una compassione dolciastra.
Veronica aveva sbattuto con furia la cornetta.
E adesso?
Adesso agirai in perfetta negligenza.
Oh, questo era l'omino saggio smagrito e sorridente.
Gli urlò: ma quale fottutissima azione posso io fare, se non mi trovo in questo mondo (scandì a voce altissima l'ultima sillaba do, nessuno nel condominio vuoto la sentì).
E adesso?
L'una vale l'altra. Dal tutto è tutto equidistante.

Fuck you, omino ominoso, saggio dei miei stivali. Hai vinto.
Si diresse verso la scrivania, aprì la scatoletta che lei chiamava De-La-Suerte (patetico ma utile espediente escogitato da tempo per uscire dai vicoli ciechi). Dentro lo scrigno di latta da lei appositamente dipinto nel colore della Sorte (il bianco) c'era una serie di foglietti azzurri ripiegati.
Nervosamente ne estrasse uno. Sperava in un confortante dormo, in un riposante leggo, sperava in un rassicurante metto tutto in ordine. Invece spiccò il monito: esco alla cieca.
Si morse le labbra, questo le sarebbe costato un bello sforzo, ma il patto era di ubbidire, comunque.
Va bene, esco. Porto in giro la monade. Si sentiva alquanto stupida, ma non le importava.
Tirò giù dal guardaroba l'intero repertorio prima di trovare la combinazione giusta. Vestirsi, operazione impervia. Voce fuori campo, semiseria, stentorea.
Il trionfo dell'artificio sulla natura matrigna, poveri umani, che vivete nel tempo!
Veronica si stava quasi divertendo. Si piantò davanti allo specchio, che le restituì la seguente immagine: capelli arruffati, camiciola di spugna anonima, faccia sguarnita. Omino ominoso, ti presento Mrs. Blank.
Tirò fuori una lingua lunga, lanciò la sua sfida. Caro specchio che rifletti il mondo, vuoi vedere che forma prendo?
Assumerò per l'occasione forma umana.

Ciak, finalmente si gira, voce fuori campo. Chi mi sento oggi?
Oggi mi sento una bambolina che gioca a fare la bambina che gioca a fare la signorina. Non chiedetemi cosa significa.
Che colore è questo giorno?
Questo giorno è il colore viola del dolore bello-et-absoluto. E così di viola io mi vestirò.
Camicetta viola di nylon lucente da rockstar, gilet attillato di camoscio violaceo ton-sur-ton. Frugando nel cassetto dei gioielli, trovò un anello con pietra viola oblunga da regina babilonese. Come sempre, la voce dei gioielli prese a raccontare: - cavalca una regina - straniera fra le genti - criniera capelli vento - reca i rari gioielli - polvere vento capelli - baratta gioie e metalli - diadema di teruelite bracciali di adularia - criniera vento zoccoli - e va e va e va - chissàdove chissàdove - verso la
Chiuse il cassetto degli anelli con un colpo secco. Ora comandava lei su tutte le voci. Era libera, libera. Scelse con somma cura fra i nastri una musica adeguata per il trucco. Qualcosa di molto, molto solenne e décadent.
Le labbra le voglio di un rosso carminio, come una scura fiamma, come una rosa Baccarat. Baccarat, Baccarat, ripeteva fra sé Veronica. Hai mai baciato una rosa?

Si truccò con grande precisione. Carnagione pallidissima di cipria, occhi bistrati da diva tragica del muto, labbra struggenti da ninfa celtica. Gettiamo questa pia coltre sull'abisso del giorno e, già che ci siamo, che sia una coltre bella. L'abisso del giorno disorienta, assorbe luce e ulula, gli umani lo temono e lo scansano.
La voce fuori campo insisteva nel racconto. Lei era una pellegrina, lei non era di questo mondo. Non ricordava di che mondo era. Era stata mandata nel mondo carica di un segreto. Non sapeva quale. Doveva trovare qualcuno. Non sapeva chi.

Tutte queste incognite in verità le bucavano il petto, il vento rarefatto del cosmo ci passava attraverso e lei ne sentiva l'eternità impassibile.
Rabbrividì di un freddo siderale.
Automaticamente ruotò le orbite in cerca di qualcosa di rosso, possibilmente non troppo avvincente. Lo sguardo le cadde su un cuscino del divano. Lo fissò per qualche minuto lasciandosi raggiungere da quelle vibrazioni calde.
Per fortuna i colori esistono, e questo è certo. Tappò la bocca al pensatore che già si stava interrogando sul fertile spunto. Strinse le dita inanellate, e quelle dita inanellate le rammentarono che era pronta per uscire, così ricordava era stato deciso, da lei stessa, secoli prima. Infatti un'antica musica berbera stava suonando, lenti sonagli cerimoniali la invitavano a celebrare una trama antica e cadenzata.
Si avviò verso lo specchio, come da sempre fanno le signorine, per aggiustarsi.
Non serve nessun motivo reale, per uscire, alle signorine, loro si aggiustano i capelli davanti allo specchio con un lieve sorriso, spandono nubi di profumo nell'aria d'intorno, fanno scivolare in borsa superflui oggetti di ogni sorta, passeggiano lente verso la porta, le signorine, al suono di un sonaglio andaluso.
Sulla porta sostò un lungo attimo, lasciando che la puntina raggiungesse il centro del disco e strisciasse sui solchi vuoti con quel dolcissimo fruscìo circolare, continuamente spezzato, continuamente rimarginato...
Si concesse tutta la bellezza di quel tempo morto, indistinto.
Poi velocemente spense tutto, prese le chiavi, finalmente uscì sul pianerottolo.
Evitò l'ascensore, corse a perdifiato per le scale, con un salto fu fuori dal portone.
Forme! Colori! Rumori! Ecco il mondo degli umani deformi e convulsi. Eccola per le strade, senza meta. Mentre le scarpe rimbalzavano sull'asfalto, la voce riprendeva a narrare.
Lei era una fuggiasca, lei era una clandestina. Non possedeva nient'altro che un paio di scarpe dalla suola molto spessa e una croce ansata d'argento.
Aveva un fratello perduto, che la stava aspettando.
Un giorno lo avrebbe incontrato per le strade del mondo, riconoscendolo da uno strano infallibile segno. Gli occhi di lui avrebbero trafitto tutti gli involucri, ricomposto ogni cosa, e quel suo vagare avrebbe conosciuto una fine fonda e magnifica. Sarebbe valsa la pena di vivere e anche di morire. Forse quel giorno sarebbe morta, coperta di foglie verdi.
Mentre così pensava, le gambe battevano l'asfalto, elastiche, l'immagine della giovinezza.
Dove vado non so.
Intorno a lei tante facce che cercava di non guardare. Quella giovinetta dai lineamenti tristi e delicati, devastati dall'acne, stringe al petto un misterioso pacchetto rosso. Livio il marinaio archetipico, barcollante laggiù sul lungomare, mima con enfasi alcolica l'omaggio del gentiluomo alla femmina che passa. Sulla barca Luigi il pescatore, dal bel viso doloroso di bronzo antico, intreccia le reti sul molo con calma attenta. Davanti alla tabaccheria Celentano canta, barattolo storto e sorriso di Jolly, una chitarra stonata lo accompagna. Amava di amore muto quegli esseri umani così solitari, abissali, non poteva farsi assorbire. Preferiva guardare le nuvole evanescenti, e difatti ogni tanto inciampava.
Inciampò. Sentì una vertigine, poi un dolore acuto alla caviglia, un principio di mancamento non del tutto sgradevole, un brivido freddo.

Si trascinò sul muretto vicino agli scogli. Gli esseri umani scorrevano ai lati, scontando l'insensatezza del giorno con mezze frasi, poiché la vicinanza del mare li rendeva più minerali e più labili. Il mare turchino sfiorava leggero le rocce e poi le inondava di spuma candida e poi si ritraeva, come fa un'amante. Veronica sentì nascere in sé una frenesia, un urlo. Guarda, il connubio degli elementi, il culmine infinito, il sale disciolto e semprevivo, aiutatemi, da sola non posso reggere tutta questa potenza! il baluginare del pesce, la vita che batte! L'urlo imploso quasi la fece rotolare in acqua, desiderò rotolare giù fra gli scogli ovattati nell'acqua con una forza che la spaventò.
Per carità! Si passò una mano tra i capelli, si rialzò con un colpo di reni, riprese a camminare, feroce e un po' tremante.
Passò accanto al giardino, dove una rosa bianca dondolava tra le foglie.

Veronica si arrestò, e lasciò che la sua anima si consolasse di perfetta bellezza.

Improvvisamente, vide un bruco nero e peloso spuntare da dietro una foglia, strisciare lento sullo stelo evitando le spine, raggiungere infine la corolla e penetrare, viscido e greve, la fragile corona dei petali.
Veronica lo guardò affascinata e sentì una scarica di orrore puro incresparle la nuca e poi, in uno spasimo, il corpo dentro e fuori. La ghiaia è ispida e impura, pensò con coscienza di mucosa, poi c'era una panchina e la gamba destra non collegata, curiosamente l'occhio ancora la seguiva, in un frastuono di passi.
L'intelligenza gregaria dei piedi l'aveva rifugiata in un viottolo in salita, deserto.
Posò lo sguardo dentro una vetrina spenta, dove un'assurda, sinistra fila di scarpe sinistre la fissava con orrida banalità, dove vide la propria ombra riflessa sovrapposta alla fila di scarpe e l'orrido bruco pulsante fra i petali della strada massiccia pulsante come un'escrescenza di cellule.

Con le spalle alla vetrina, il viso totalmente neutro, alzò gli occhi al poco cielo fra i tetti. Vide l'azzurro, sentì scenderlo in gola.
Invocò il suo fratello sconosciuto. Che le venisse incontro adesso, come una lunga fiamma, incendiando tutte le stupide scorie, che la strappasse via dal circuito della vita, per consumarsi con lei nella solitudine del cosmo. Soltanto questo chiedeva agli dei. La fiammata veloce di due corpi allacciati, due corpi divenuti celesti.
Risuonarono subito le voci. Tutto ciò non è di questo mondo. Ho detto che rinuncio al mondo.
Rinuncia dunque. Che cosa aspetti?
In quel momento tutto quanto precipitò indietro in velocissima risacca. Scarpe, rose, vetrine, amici, amanti, passanti. Veronica vide i loro volti carichi di promesse affilarsi nell'ombra di un cono che tutti li risucchiava. Dov'era l'occhio di vetro equanime, l'occhio pietoso?
Sentì come il rimbalzo di un elastico.

La pellicola è finita.
C'è una pace ottusa e un pulviscolo.
Lemme, lemme, lemme.

Girò la chiave nella serratura, entrò nella casa buia. Non accese la luce e staccò il telefono. Si infilò nel letto, si abbandonò alla notte.
In alto, nel cielo, una stella cadente sfrecciò attraverso lo spazio, si sciolse nel firmamento.



(giugno ‘94)



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